Approfondimento

Brexit. Il cambiamento è che non c’è nessun cambiamento

Daniela Corda corrispondente UK

Sono passati oltre tre mesi dal giorno del referendum britannico e, nonostante i pronostici apocalittici, l’economia inglese non ha subito battute d’arresto. Che cos’è successo realmente dopo il 18 giugno?

Non c’è stato nessuno “shock economico immediato e profondo”, né tantomeno si è innescata “una recessione con migliaia di posti di lavoro persi”, come ammonivano il Tesoro e l’ex-Cancelliere George Osborne; al contrario, sono diversi i segnali di un’economia in buona salute.

All’inizio c’è stato un calo nel mercato azionario, ma ora il valore delle azioni si attesta addirittura ad un livello superiore rispetto al periodo pre-referendum. E si è registrato un leggero aumento dell’inflazione, del tutto fisiologico: i prezzi al consumo hanno registrato un +0,6%.

Ma il dato più significativo è rappresentato dall’occupazione, aumentata di 52˙000 unità, e dal tasso di disoccupazione al 4,9%, ai livelli minimi dal 2005. Mentre l’occupazione è al 74,5%, il livello più alto dal 1971. Sono inoltre calati i sussidi di disoccupazione, e le vendite al dettaglio hanno registrato un +5,9%, favorito soprattutto dall’incremento degli acquisti da parte dei turisti dovuto al deprezzamento della sterlina.

Il potere d’acquisto dei salari, infine, è cresciuto dell’1,9% nel mese di luglio su base annua. Una situazione ben lungi dalle previsioni catastrofiche dei sostenitori del Remain. Quello che è stato descritto come un fenomeno allarmante dai media, la svalutazione della sterlina, in realtà andrebbe capito meglio.

Cos’è la svalutazione? Quali conseguenze comporta per l’economia reale?

La svalutazione è un rapporto tra due valute (sterlina/dollaro, sterlina/yen, ecc.).

La parola svalutazione è in realtà fuorviante. Sarebbe stato corretto parlare di svalutazione fino al 1971, fino a quando era cioè in piedi il gold exchange standard: le valute erano agganciate al dollaro USA, che a sua volta era convertibile in oro ad un tasso di conversione fisso. In quel regime, chiunque poteva recarsi in banca, portare i propri soldi e chiedere in cambio il corrispettivo in oro o in valuta estera, che avveniva, per l’appunto, al tasso di cambio fisso.

Che cosa comportava il regime di cambio fisso?

Il Governo poteva, in qualsiasi momento, terminare le riserve di oro e/o di valuta estera se tutti si fossero precipitati in banca nello stesso momento a chiedere la conversione delle sterline. E questo avrebbe rappresentato un serio problema. Si potevano dunque intraprendere tre vie:

  1. deprezzare, o meglio svalutare, la sterlina, modificando il rapporto di conversione (il che avrebbe potuto ridurre la fiducia nel Governo e, di conseguenza, incrementare le richieste di conversione);
  2. prendere in prestito riserve di valuta estera (in questo caso si sarebbe dovuto contrarre un debito su cui poi pagare gli interessi in una valuta estera, che lo Stato non emette);
  3. deflazionare l’economia (una crescita economica più lenta ridurrebbe le importazioni di beni e servizi rispetto alle esportazioni, permettendo al Governo di accumulare valuta estera. Così facendo, però, il tasso di crescita dell’economia interna diminuisce e la disoccupazione aumenta).

All’epoca, il tasso di cambio ufficiale per la sterlina inglese era di 2,80$ USA. Il Regno Unito, quindi, avrebbe dato 2,80$ (valuta USA) in cambio di ogni sterlina inglese per cui fosse stata richiesta la conversione.

Ora il regime di cambi è fluttuante, il che significa che il Governo non s’impegna a convertire la valuta in nessun metallo prezioso né tantomeno in una valuta estera ad un cambio fisso; il cambio viene deciso dall’incontro tra la domanda (di coloro che cercano di ottenere sterline) e l’offerta (da parte di coloro che offrono sterline in cambio di altre valute), che avviene sul Forex (Foreign Exchange Market, il mercato valutario). Pertanto, oggi, sarebbe più corretto parlare di deprezzamento più che di svalutazione.

Le conversioni (cioè gli acquisti) vengono dunque fatte ai tassi di cambio di mercato correnti e non evitando che i tassi di cambio varino. E i tentativi di influenzare i tassi di cambio da parte dei Paesi sono discrezionali. Al contrario, con un tasso di cambio fisso, il Governo deve usare la politica economica per cercare di evitare che il tasso di cambio fluttui.

Il tasso di cambio fluttuante assicura al Governo un maggiore margine nel realizzare obiettivi politici, quali la piena occupazione, il pieno Stato sociale e la stabilità dei prezzi (vedi qui per approfondimenti sui regimi dei tassi di cambio).

Essendo il regime di cambio fluttuante, è del tutto fisiologico che le valute subiscano fluttuazioni: negli anni ’70 del ‘900, durante la crisi, la sterlina perse un terzo del suo valore (ciò nonostante, l’economia britannica crebbe dell’1,06%) e nel 1992, quando uscì dagli accordi europei di cambio, calò di un quarto; mentre subito dopo la Brexit è scesa appena dell’8% circa. Il 7 ottobre scorso si è deprezzata improvvisamente del 10%, alimentando ulteriormente preoccupazioni tra i media che ricollegano il fenomeno all’esito del referendum.

Da cosa è dipeso quest’ulteriore deprezzamento?

Intanto, osservando i vari grafici, si può notare come la perdita di valore sia stata registrata nelle prime ore del mattino, quando le borse inglesi ed europee erano chiuse, motivo per cui la stessa Bank of England, che sta indagando sulle possibili cause, ritiene si possa essere trattato di un errore umano, presumibilmente proveniente dal Giappone o dall’Australia. Certo è che più che un errore sembra un avvertimento, nel gergo finanziario un “messaggio in bottiglia”, lanciato da qualcuno.

Ma chi avrebbe interesse ad un deprezzamento della sterlina? Osservando la bilancia delle partite correnti e la bilancia commerciale, notiamo che entrambe registrano un risultato negativo, il che significa che l’Inghilterra importa molti più beni e servizi di quanti ne esporti. Le conseguenze della svalutazione/deprezzamento nel lungo periodo saranno:

  • un aumento dei turisti, che si precipiteranno a fare acquisti nel Regno Unito;
  • un aumento dei consumi di beni e servizi prodotti internamente (con conseguente riduzione delle importazioni);
  • un aumento delle esportazioni;
  • una crescita dell’industria britannica.

Ergo, l’unico vero rischio che la Brexit potrebbe comportare è che altri Paesi prendano d’esempio la Gran Bretagna e decidano di tagliare le catene che li imprigionano in un sistema, quello attuale, che li obbliga ai sacrifici umani: disoccupazione, smantellamento dello Stato sociale, privatizzazioni e suicidi di massa. È un rischio che ci piacerebbe correre!

Esistono altri rischi per l’economia inglese, che sta comunque registrando un rallentamento, specie per quanto riguarda la crescita dei salari reali. Non si tratta però di rischi legati alla Brexit, bensì alle politiche economiche adottate dal Governo.

Nel mese di luglio, il Governo ha registrato un avanzo primario di 1 miliardo di sterline, presentandolo come un risultato positivo (l’avanzo primario è la differenza tra la spesa pubblica netta e le entrate tributarie. Quando lo Stato riscuote più tributi rispetto a quanto spende, si parla di avanzo primario o surplus; viceversa si parla di disavanzo o deficit pubblico). In realtà si tratta di un risultato negativo, in quanto significa che il settore privato (i cittadini e le imprese) si è impoverito di 1 miliardo. E sembra che il Governo voglia proseguire con la riduzione della spesa in deficit e/o con l’aumento della pressione fiscale (le entrate fiscali di luglio 2016 sono aumentate del 3,4% rispetto all’anno precedente): i due ingredienti principali che portano ad un aumento della disoccupazione e che innescano quel meccanismo che ha portato i Paesi dell’Eurozona, tra cui l’Italia, all’attuale crisi economica, che peggiora di anno in anno.

Ma c’è dell’altro: il Quantitative Easing.

Il Quantitative Easing può migliorare l’economia inglese?

Lo abbiamo spiegato più e più volte.

Quali ripercussioni ha il QE sull’economia reale? Nessuna, se non che i tassi più bassi riducono il reddito da interessi dei risparmiatori. Si potrebbe dire che è un’altra misura di austerity, un’ulteriore tassa sull’economia.

È una politica monetaria attraverso cui la Banca Centrale scambia asset infruttiferi o a basso rendimento con asset a maggiore rendimento e a più lungo termine (titoli di Stato), e con cui si riduce il tasso d’interesse overnight (quello a cui gli istituti bancari si scambiano riserve bancarie), che rappresenta il tasso di riferimento per tutti gli altri tassi applicati dalle banche (a mutui ed altri prestiti). Ma, a differenza di quello che raccontano i media e i politici, non aumenta l’erogazione di credito a famiglie e imprese.

I cittadini si recano in banca a chiedere un prestito solo se hanno un reddito, garanzie da offrire alla banca, e se sono ottimisti sul futuro. Nel momento in cui si riducono i redditi (attraverso i tagli alla spesa pubblica e/o l’aumento della pressione fiscale) o se il lavoro diventa sempre più precario (o, come piace dire a Bruxelles, “più flessibile”) e se non si hanno prospettive positive per il futuro, gli istituti di credito continueranno ad erogare sempre meno prestiti. Il risultato? Le imprese subiscono il credit crunch (se un’impresa riduce il fatturato, la banca le riduce il fido). I tassi d’interesse non incidono sull’erogazione dei prestiti. Altro che “bazooka anti-crisi”, come titolava Il Sole 24 Ore.

Che cosa deve fare un buon Governo se vuole rilanciare l’economia?

Deve agire nell’interesse pubblico, ovvero nell’interesse della collettività. Deve investire sul futuro tramite la spesa in deficit, migliorare le condizioni di lavoro e ridurre la pressione fiscale ad un livello accettabile e sostenibile, così da poter permettere a tutti una vita dignitosa.

Ma, soprattutto, dovrebbe finanziare dei piani di lavoro transitorio, in grado di assorbire per il periodo necessario le persone licenziate dalle aziende in crisi. Il PLT eviterebbe il dramma della disoccupazione, che è l’unica vera, grande piaga della società, con costi sociali pesantissimi. Le persone impiegate dal Governo in lavori di pubblica utilità otterrebbero un reddito da poter spendere presso le aziende, che, grazie all’aumento dei consumi, si risolleverebbero e riprenderebbero ad assumere per far fonte alla maggiore domanda di beni e servizi. È così che si innesca quel circuito virtuoso, l’unico e il solo, che è in grado di rilanciare l’economia.


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