La Teoria

Le operazioni delle Banche Centrali moderne, Principio n. 1

Le operazioni delle Banche Centrali moderne - Principio n. 1

Abstract

Nella teoria economica post-keneysiana i dibattiti tra strutturalisti e orizzontalisti hanno evidenziato il fatto che i sostenitori della moneta endogena avessero una visione molto differente delle operazioni di politica monetaria rispetto agli economisti neoclassici.

Infatti, come Fullwiler (2003) argomenta, fino a poco tempo fa – tra i neoclassici – la ricerca sul comportamento delle banche nel mercato statunitense dei fondi federali [si tratta di fondi depositati dalle banche commerciali presso la Fed, istituiti per consentire alle banche che sono temporaneamente a corto di riserve obbligatorie di prenderne in prestito da banche che ne detengono in eccesso, ndt; fonte: http://www.businessdictionary.com/] ha mostrato scarsa relazione con la ricerca sul comportamento della Fed – e viceversa – a parte poche considerevoli eccezioni.

Questo è cambiato in modo considerevole a partire dalla fine degli anni ‘90, quando i ricercatori neoclassici hanno constatato che diversi problemi richiedevano di essere considerati in relazione reciproca – come la trattazione di temi relativi alle alternative di policy zero bound [politiche monetarie che perseguono l’obiettivo di ridurre il credito (concesso) e mantenere basso (il livello) d’inflazione; la Fed ricorre ad essa quando riduce i tassi d’interesse di breve termine a zero o a valori prossimi allo zero, ad esempio 0,25%, ndt; fonte: http://www.businessdictionary.com/], ai retail sweep accounts [conti di intermediazione il cui saldo di cassa è automaticamente trasferito in un investimento remunerativo, come – ad esempio – un mercato dei fondi monetari, ndt; fonte: http://www.businessdictionary.com/], alle crisi dei sistemi di pagamento e all’aumento del ricorso a scelte di wholesale settlement [emissioni di titoli all’ingrosso, ndt] che prescindono dalle banche centrali.

Mentre – da decenni a questa parte – [è possibile affermare che] la conoscenza approfondita delle operazioni di politica monetaria è stata centrale per la ricerca relativa alla teoria della moneta endogena, non è un’esagerazione sostenere che ora è un’area di ricerca ben affermata anche nell’economia monetaria neoclassica.

Nonostante ciò, tra i due approcci rimangono differenze nette.

Tra i neoclassici, la letteratura sulle operazioni delle banche centrali non è considerata nei modelli di financial asset pricing [determinazione del prezzo delle attività finanziarie, ndt] o nel cosiddetto modello economico del new consensus [il paradigma neoclassico, ndt].

Infatti nonostante quest’ultimo accetti l’assunto del tasso d’interesse target, i modelli del new consensus si occupano della strategia di politica monetaria, e non delle tattiche o delle operazioni giornaliere; sebbene questo sia un tema di ricerca ben affermato per le pubblicazioni, l’implementazione delle politica monetaria rimane un argomento marginale nei libri di testo sulla teoria monetaria neoclassica come il Walsh (2003) (Bindseil 2004, 1).

Inoltre, i neoclassici ancora non ritengono che la moneta sia creata endogenamente nel sistema bancario come – invece – Marc Lavoie fa ripetutamente notare; infatti, come Charles Goodhart ha argomentato in una serie di articoli recenti, nel modello del new consensus non c’è – di fatto – alcun sistema bancario privato, di qualunque tipo esso possa essere (e.g., Goodhart 2008a).

Questo – naturalmente – non è soddisfacente poiché l’evidenza diffusa dalla recente letteratura neoclassica in materia di operazioni delle banche centrali è estremamente coerente con l’approccio della (teoria della) moneta endogena alle operazioni delle banche centrali.

La visione orizzontalista sulla base della quale le banche centrali fissano direttamente – con precisione discrezionale – solo i tassi d’interesse (e non l’ammontare totale delle riserve o della moneta) è stata ripetutamente supportata da questa letteratura.

Mentre con la letteratura in tal proposito rilevante potrebbero essere scritti diversi libri, è qui degno di nota il libro di Ulrich Bindseil (2004), l’ex Presidente della Sezione Liquidity Management della Banca Centrale Europea, in cui son descritte con notevole dettaglio le operazioni della Fed, quelle della BCE e delle Banca d’Inghilterra in una maniera che è molto simile a quella della teoria orizzontalista.

Obiettivo di questo capitolo è quello di descrivere 10 principi generali relativi alle operazioni delle banche centrali. Questi 10 principi non intendono essere completi né esaustivi; e neppure le argomentazioni di ogni principio saranno necessariamente approfondite. Piuttosto, rappresentano “cosa ci si dovrebbe aspettare che ogni economista oggi sappia”, considerando la copiosa letteratura esistente al riguardo – sia ortodossa che eterodossa – e l’evidenza, empirica o derivante da resoconti, alla quale fanno riferimento i discorsi e le pubblicazioni dei funzionari delle banche centrali.

Come già notato, questa ricerca conferma – in generale – il precedente approccio di Moore (1988) e di altri autori legati – in un modo o in un altro – alla letteratura orizzontalista.

Principio n. 1: Le riserve di bilancio sono accantonate a due soli scopi: il saldo dei pagamenti e (dove necessario) il rispetto dei parametri di riserva obbligatoria. Le riserve in bilancio non “finanziano” i prestiti o, in altro modo, contribuiscono alla creazione di outside money [moneta esogena, ndt].

Come i sostenitori della moneta endogena riconoscono da qualche tempo – in termini contabili – i prestiti creano i depositi. Pollin (1991) nota che sia gli orizzontalisti che gli strutturalisti accettano l’argomentazione di Alan Holmes (1969), ossia che “nel mondo reale le banche concedono credito creando depositi e – [solo] in seguito – reperiscono le riserve di bilancio”.

Pollin ha argomentato, comunque, che i due approcci divergono sulla questione relativa a “come e dove le banche … ottengono le [riserve di bilancio] addizionali una volta che hanno concesso credito creando depositi?” (1991, p. 367).

La sua domanda omette la questione più importante: il fatto che una banca conceda credito implica necessariamente che essa debba cercare di acquisire riserve di bilancio addizionali? La risposta sta innanzitutto dalla considerazione delle due ragioni per cui le banche necessitano delle riserve di bilancio: le banche detengono le riserve di bilancio nei conti detenuti presso la (loro) banca centrale per saldare i pagamenti e per rispettare i parametri di riserva obbligatoria.

La questione sollevata da Pollin è relativa alle riserve di bilancio; la sua argomentazione implica che la concessione di credito addizionale determinerebbe un aumento dei depositi e, quindi, un aumento della riserva obbligatoria che richiederebbe, a sua volta [lett. in tal modo, ndt], che la banca accantoni ulteriori riserve di bilancio (in mancanza d’incremento del contante in cassaforte).

Moore (1991, p. 407) replica a Pollin in modo appropriato, notando che la concessione di un nuovo prestito non conduce necessariamente ad un aumento di depositi [lett. a maggiori depositi, ndt] da accantonare a riserva, ma potrebbe essere compensata da un aumento della quota di debiti caratterizzati da indici di riserva inferiori (o nulli).

Moore ha evidenziato anche che questo sarebbe più probabile laddove i tassi d’interesse fossero più alti o dove le riserve in bilancio fossero non-earning assets [attività che non producono interesse, ndt], casi in cui aumenterebbe il costo opportunità di accantonare le riserve di bilancio o i depositi e le banche sarebbero incentivate a cercare – nell’immediato – modi per ridurre i loro requisiti di riserva.

Coerentemente con l’argomentazione di Moore, sin dalla nascita della contabilità retail sweep [nella contabilità retail sweep una banca trasferisce fondi tra la contabilità di un cliente e i suoi depositi fino a sei volte in un mese, in forza di una pre-autorizzazione a trasferimenti automatici, solitamente al fine di ridurre i requisiti di riserva da rispettare nel rendere disponibile al cliente l’accesso alla liquidità – ndt; fonte: Board of Governors FED – http://www.federalreserve.gov/BOARDDOCS/LegalInt/FederalReserveAct/2007/20070501/20070501.pdf] – tra la metà e la fine degli anni ’90 – negli USA le riserve obbligatorie sono state per lo più volontarie poiché le banche usavano software per monitorare le attività (dei conti) di deposito dei clienti e trasferivano i saldi inattivi in MMDA (Money Market Deposit Accounts), conti di deposito del mercato monetario non assoggettabili a riserva (Fullwiler 2003; Anderson and Rasche 2001).

Inoltre, come Moore notava in diversi articoli negli anni ’80, l’obbligo di soddisfare i requisiti di riserva obbligatoria dev’essere rispettato in un lasso di tempo posticipato [rispetto al momento in cui viene calcolato, ndt] negli USA (in modo particolare, dato il ritorno della contabilità ritardata delle riserve, nel 1998) e in altri paesi.

Il periodo di mantenimento – il periodo di tempo durante il quale le banche devono rispettare – in media – i parametri di riserva obbligatoria – termina (e, nella maggior parte dei casi, inizia) dopo che sono stati determinati i parametri di riserva obbligatoria di una banca. Negli USA, per esempio, un periodo di mantenimento di due settimane inizia 17 giorni dopo che la riserva obbligatoria di una banca è stata determinata in relazione al periodo di riferimento.

Nell’Unione Monetaria Europea, il periodo di mantenimento è ritardato e dura il doppio rispetto a quello negli USA.

In breve, l’atto di concedere credito e l’atto di reperire le riserve di bilancio per rispettare i parametri della riserva obbligatoria dovrebbero essere considerati abbastanza separatamente.

Le banche a corto di riserva obbligatoria (cosa che accade raramente, considerate le carry-over provisions grazie alle quali le banche possono colmare nel periodo di mantenimento successivo le carenze verificatesi nel periodo precedente) riceveranno automaticamente (per tale carenza) uno scoperto di conto sui loro conti di riserva ad un tasso di penalizzazione stabilito per tali carenze della banca centrale; come tale, anche se i periodi di mantenimento e di computo fossero esattamente simultanei (come alcuni economisti propongono), la carenza di riserva obbligatoria significherebbe semplicemente che una banca incorrerebbe in uno scoperto nel suo conto di riserva al tasso di penalizzazione fissato dalla banca centrale.

In altre parole, dalla manipolazione della tempistica del periodo di mantenimento relativamente a quello di computo non emerge un vincolo addizionale al comportamento delle banche.

Complessivamente, l’atto di accantonare riserve di bilancio per soddisfare i parametri di riserva obbligatoria ha a che fare con il mantenimento del costo bancario dei fondi al di sotto del tasso di penalizzazione della banca centrale, e non ha nulla a che fare con i vincoli sulla capacità della banca di creare outside money [moneta esogena, ndt].

Per esempio, sebbene i parametri di riserva obbligatoria siano ancora importanti in Giappone e in Europa, al momento hanno poca importanza negli USA e non sono previsti in molti altri paesi.

In questi casi, obiettivo della riserva di bilancio è quello di saldare i pagamenti.

Qui, di nuovo, la concessione di credito, che di solito è accompagnata dal trasferimento di un pagamento della banca per conto del nuovo soggetto che riceve il prestito, spesso non richiede che la banca abbia riserve di bilancio o, altrimenti, che le acquisisca nei mercati monetari.

In alcune nazioni, per esempio, una percentuale significativa di pagamenti è saldata su base netta e [lett. mentre, ndt] le banche sono responsabili solo del saldo di una piccola percentuale di questi pagamenti (che effettuano) attraverso i conti detenuti presso la banca centrale (Fullwiler 2006, 505-510).

Inoltre, negli USA, le banche che trasmettono pagamenti nel minuto in cui ne ricevono un altro di valore pari o superiore, non incorrono in un debito nei loro conti di riserva; di conseguenza, le banche – di frequente – raggruppano e trasmettono la maggior parte dei loro pagamenti durante i cd. periodi di saldo (McAndrews and Rajan 2000).

Infine, come spiegato – di seguito – nel Principio n. 2, le banche centrali in genere procurano alle banche scoperti ad un qualche tasso che garantisce loro la possibilità [lett. le mette in condizione, ndt] di trasmettere pagamenti persino quando i saldi dei conti di riserva sono nulli o negativi.

In breve, che una banca conceda credito e (nella maggior parte dei casi) liquidi un pagamento per conto di colui che prende a prestito non implica necessariamente che la banca abbia o, altrimenti, cerchi di trovare attivamente riserve di bilancio addizionali; invece, la questione per la banca è il prezzo al quale può reperire le riserve di bilancio di cui necessita dalle altre banche o il tasso di penalizzazione stabilito dalla banca centrale al fine di effettuare il saldo finale dei saldi contabili di giornata.

Il punto qui è separare la quantità di riserve di bilancio accantonate dalla banca, dall’analisi circa la decisione o la capacità della banca di concedere credito, (punto) che di solito non è compreso dai neoclassici e persino da alcuni sostenitori della moneta endogena.

Di nuovo, piuttosto che chiedersi dove o come le banche reperiscano le riserve di bilancio una volta che abbiano concesso credito, il tema più importante è considerare – in primo luogo – in che modo le banche usano le riserve di bilancio.

Altrimenti, come dimostrato, si potrebbe presupporre un vincolo al comportamento delle banche dove – di fatto – non esiste, persino nel paradigma della moneta endogena.

In breve, una banca che ha carenze di riserva obbligatoria o ha bisogno di saldare uno scoperto nel suo conto presso la banca centrale cercherà di ottenere riserve di bilancio al costo più basso possibile o le otterrà dalla banca centrale ad un tasso di penalizzazione.

Come tale, incrementare le attività nel bilancio (cioè, creare outside money addizionale) apre nelle riserve di bilancio della banca una potenziale posizione short, che può incidere sulla profittabilità di qualunque prestito essa conceda (dall’accettazione del merito creditizio di colui che prende a prestito), ma non incide sulla capacità della banca di concedere il prestito.

 

Paper originale pubblicato il 1 giugno 2008

Traduzione a cura di Maria Consiglia Di Fonzo

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