L'Editoriale

Il SI di Confindustria al Referendum. La crescita non interessa più?

Il SI di Confindustria al Referendum. La crescita non interessa più?

Vincenzo Boccia, Presidente di Confindustria:

Se vince il NO al referendum costituzionale l’Italia ritorna in recessione

Ciò che Confindustria desidera non è che il Paese riparta, ma che le Piccole e Medie Imprese siano ridotte a lavorare sempre di più in cambio di un tozzo di pane e che ci siano sempre più lavoratori disposti a lavorare per poco. Tutto per aumentare i propri margini di profitto.

Le piccole e medie imprese, i loro dipendenti e i professionisti che indirettamente lavorano per le PMI hanno interessi economici divergenti rispetto a Confindustria. Le PMI, nella gran parte dei casi, vivono principalmente di domanda interna all’Eurozona, quindi i loro guadagni dipendono dai consumi dell’Eurozona e dunque dal livello di occupazione in quest’area. Le grandi imprese legate a Confindustria, invece, vivono di domanda estera e possono fare facilmente a meno del mercato interno dell’Eurozona.

Le politiche di austerità imposte in Eurozona distruggono la domanda interna. Riducono i soldi che lo Stato lascia nelle tasche dei privati attraverso un’azione combinata di aumento della tassazione e diminuzione della spesa pubblica, riducono cioè il deficit.

Più lo Stato taglia la spesa pubblica, meno soldi arrivano al settore privato; più aumentano le tasse, meno soldi rimangono in tasca al privato. [1]

Tuttavia, tale riduzione dei risparmi si ripercuote in modo prevalente sulle PMI, favorendo la concentrazione della ricchezza finanziaria e politica nelle mani dei capitani d’industria.

In questo quadro, gli interessi economici e politici delle PMI coincidono o divergono da quelli della Grande Impresa Esportatrice?

Per una piccola o media impresa è conveniente lavorare per diversi clienti, in modo che, se un cliente non la paga, o pretende di farla lavorare per un compenso non rispettoso del suo lavoro, può salutarlo e cercarsene un altro. L’interesse delle PMI è che il Governo faccia politiche economiche volte a sostenere la domanda interna, di cui vivono.

La Grande Impresa, al contrario, preferisce una situazione in cui una buona parte delle piccole imprese fallisce continuamente, per riuscire facilmente ad imporre a quelle rimaste sul mercato di lavorare in regime di monocommittenza con lei. Le politiche di austerità non intaccano i guadagni della Grande Impresa Esportatrice, che vive di domanda estera all’Eurozona, fintanto che essa è in grado di imporre politiche di svalutazione del lavoro.

In un contesto in cui la domanda interna cala, le piccole e medie imprese non possono permettersi di trattare sul prezzo con la Grande Industria: o accettano o chiudono. La Grande Impresa ha quindi un certo interesse a non combattere le politiche di austerità. Le PMI sono, allo stesso tempo, soggetti venditori della propria forza lavoro alla Grande Impresa, e compratori di forza lavoro dai lavoratori. In questo orizzonte, per contrastare la riduzione del loro risparmio, si trovano spesso nelle condizioni di dover comprimere i costi cercando lavoratori disposti a lavorare in cambio di redditi più bassi. Applicano quindi ai propri dipendenti la stessa logica che hanno subito: la compressione (in questo caso dei salari).

Le politiche di austerità, improntate ad una riduzione del deficit e quindi alla continua svalutazione del lavoro, affossano sempre più le condizioni di chi sta all’ultimo anello della catena: PMI e lavoratori sprofondano in una serie di gironi infernali, in cui l’essere umano viene ridotto alla sua sola dimensione di lavoratore e produttore di beni e servizi.

Cosa c’entra tutto ciò con la riforma del Senato?

Confindustria cerca di convincere che staremo tutti meglio riformando il Senato perché un iter legislativo più veloce è buona cosa per tutti.

Il problema non è però la velocità con cui vengono approvate le leggi, ma i contenuti e gli interessi economici che il Governo si propone di tutelare attraverso le cosiddette riforme.

Ma, come spiega la MMT, per aumentare il livello di produzione e occupazione sono necessari due presupposti:

  • la diminuzione delle tasse,
  • l’aumento degli investimenti pubblici.

In una parola sola: l’aumento del deficit.

Per ottenere la piena occupazione e garantire standard di vita dignitosi per tutti è necessario inoltre che il Governo attui dei Piani di Lavoro di Transizione finanziati dalla Banca Centrale.

Per far ripartire il Paese non serve ridurre i diritti politici né stravolgere la Costituzione su cui si fondano i nostri diritti sociali, come ad esempio il diritto al lavoro, alla sanità, all’istruzione. È invece necessario che la UE garantisca esplicitamente il debito pubblico, ovvero che garantisca i deficit pubblici necessari ad investire nel futuro.

Un maggiore deficit pubblico garantito dalla Banca Centrale Europea consentirebbe un importante taglio delle tasse, l’aumento degli investimenti pubblici in grado di creare occupazione, e l’attuazione di Piani di Lavoro di Transizione per ridare una speranza di futuro anche ai lavoratori più disagiati.

 

Note

1.^ Il deficit pubblico in euro corrisponde al risparmio privato in euro. Il deficit in euro è la differenza tra la valuta che il monopolista dell’euro immette nell’economia e quella che toglie attraverso la tassazione. Il deficit pubblico del monopolista dell’euro (l’Unione Economica e Monetaria dell’Unione europea, UEM) corrisponde ai risparmi in euro di tutti i risparmiatori presenti nel mondo. La somma di tutti i deficit pubblici annuali pregressi realizzati dagli Stati dell’UEM corrisponde al Debito Pubblico: esso è perciò il risparmio finanziario netto accumulato dal settore privato, anno dopo anno. L’unico problema che il nostro Debito Pubblico attualmente ha è che in UEM non è garantito esplicitamente dalla Banca Centrale Europea.

 

Per approfondire

Grande impresa esportatrice vs PMI

Come ripristinare vendite, produzione, occupazione


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