Concludiamo la discussione sull’approccio della finanza funzionale di Lerner affrontando due questioni: la finanza funzionale e i Paesi in via di sviluppo e l’approccio della finanza funzionale ai deficit commerciali.
Finanza Funzionale e Paesi in via di sviluppo. La maggior parte dei Paesi in via di sviluppo ha una valuta sovrana – il che vuol dire che potrebbero “permettersi” di acquistare qualunque cosa sia in vendita nella valuta nazionale, compresa la forza lavoro disoccupata. Come direbbe Lerner, la disoccupazione è la prova che c’è una domanda di valuta nazionale non soddisfatta che potrebbe essere appagata con spesa pubblica addizionale. Al tempo stesso, molti Paesi in via di sviluppo adottano [regimi di] tassi di cambio fissi o controllati, che riducono in qualche misura il margine di manovra della politica nazionale. Tale margine potrebbe essere ampliato sia attraverso politiche che generino [l’acquisizione di] riserve di valuta estera (compreso uno sviluppo che accresce le esportazioni), sia attraverso la protezione delle riserve di valuta estera mediante il controllo sui [flussi di] capitali.
Inoltre, [tali Paesi] potrebbero favorire una politica che porti a sviluppo e occupazione senza incrementare le importazioni (ad esempio, [grazie all’adozione di] politiche di sostituzione delle importazioni). Potrebbero creare programmi occupazionali ad alta intensità di lavoro (così che non siano necessari beni strumentali realizzati all’estero) o programmi che offrano la produzione di cui i lavoratori da poco assunti necessitano (così che essi non spendano nelle importazioni i propri redditi).
Lo Stato potrebbe favorire i produttori nazionali rispetto a quelli esteri. Potrebbe limitare i suoi acquisti di beni e servizi esteri nei limiti dei ricavi [provenienti] dalle esportazioni. Potrebbe cercare di evitare l’indebitamento in valuta estera così da limitare la propria necessità di destinare i ricavi in valuta estera al pagamento degli interessi.
Come abbiamo detto, in un Paese in via di sviluppo la capacità di imporre e riscuotere tasse può essere ridotta. Questo limiterà la capacità dello Stato di controllare direttamente produzione nazionale. E anche se trova una grande quantità di forza lavoro disoccupata disposta a lavorare in cambio della valuta [di cui è emettitore], quei lavoratori potrebbero trovare difficoltà nell’acquistare – con quella valuta – produzione a prezzi stabili. [Un sistema di] riscossione fiscale più diligente aiuterebbe ad accrescere la domanda di valuta (poiché le tasse sono pagate nella valuta nazionale). Inoltre, lo Stato avrebbe bisogno di concentrare la creazione di posti di lavoro in quei settori che porterebbero all’aumento di produzione di tipologie di beni e servizi che i lavoratori neo-assunti vorranno acquistare. Questo potrebbe alleviare le pressioni inflattive derivanti dalla crescente occupazione.
Nel lungo periodo, evitare l’indebitamento in valuta estera e muoversi verso [un regime di] tassi di cambio fluttuanti condurrebbe all’espansione del margine di manovra della politica nazionale. Il pieno impiego delle risorse nazionali (in primis, della forza lavoro) consentirebbe ai Paesi in via di sviluppo di massimizzare la produzione riducendo al contempo l’inflazione provocata da un’offerta insufficiente. La piena occupazione della forza lavoro offrirebbe inoltre molti altri benefici ben noti, che non saranno esaminati in questa sede.
Una valuta sovrana garantisce allo Stato un più ampio margine di manovra politico – esso può spendere accreditando conti bancari e, pertanto, non è soggetto al vincolo di bilancio che si applica ad un utilizzatore di valuta. Un tasso di cambio fluttuante (o un tasso controllato, supportato da controlli sui [flussi di] capitali) accresce ulteriormente il margine di manovra politico – perché lo Stato non ha la necessità di accumulare riserve sufficienti a mantenere il vincolo. Un uso ben pianificato di tale margine di manovra politico consente allo Stato di indirizzare [il sistema] verso la piena occupazione senza provocare un deprezzamento della valuta o un’inflazione dei prezzi nazionali. A tal fine, è particolarmente utile il modello del datore di lavoro di ultima istanza o lavoro garantito, un argomento affrontato più nel dettaglio altrove nel Primer.
Le esportazioni sono un costo, le importazioni un beneficio. A livello aggregato, per un Paese le esportazioni sono un costo e le importazioni un beneficio, in termini reali. La spiegazione è semplice. Quando le risorse, tra cui la forza lavoro, sono impiegate per realizzare produzione che viene venduta all’estero, la popolazione nazionale non può consumare quella produzione o utilizzarla per altra produzione (nel caso dei beni d’investimento). Il Paese sostiene il costo di produzione, ma non ne trae il beneficio. D’altro canto, il Paese importatore ottiene la produzione ma non ha dovuto produrla. Per questo motivo, in termini reali, le esportazioni sono un costo netto; e le importazioni nette costituiscono benefici netti.
Ora, ci sono diverse precisazioni [da fare]. La prima: dal punto di vista del produttore, non importa chi acquista i beni o i servizi prodotti – l’impresa è ugualmente felice di venderli sul mercato interno o ad acquirenti esteri. Ciò che l’impresa desidera è di venderli in cambio di valuta nazionale, così da coprire i costi e guadagnare profitti. Se la produzione è venduta sul mercato interno, i conti bancari degli acquirenti vengono addebitati e quelli dell’impresa produttrice accreditati. Tutti sono contenti. Se la produzione è venduta all’estero, mentre gli acquirenti finali stanno usando la propria valuta, i ricavi saranno oggetto di un cambio di valuta così che il produttore possa ricevere valuta nazionale. Non ci preoccuperemo dei dettagli, ma di solito una banca nazionale o la Banca Centrale finiranno con il possedere riserve della valuta estera (solitamente consisterà in un credito su un conto di riserva presso la Banca Centrale estera). Il fatto resta che, comunque, in termini di risorse reali quando la produzione viene esportata il “frutto del lavoro” viene goduto dai residenti all’estero, anche se – in termini finanziari – l’impresa produttrice riceve un accredito netto del suo conto in banca e il Paese riceve un asset finanziario netto in termini di valuta estera.
La seconda: le esportazioni nette si aggiungono alla domanda aggregata e fanno aumentare il Pil rilevato e il reddito nazionale. Si creano posti di lavoro per produrre beni e servizi d’esportazione. Pertanto, un Paese che operasse al di sotto del livello di piena occupazione potrebbe dedicare risorse al settore delle esportazioni. Si generano salari e profitti, le famiglie ricevono redditi che non avrebbero ricevuto così da poter acquistare beni di consumo, e le imprese che sarebbero potute altrimenti finire in bancarotta restano sul mercato. Probabilmente è questa la ragione principale per cui gli Stati incoraggiano la crescita delle esportazioni. Nel bel mezzo della crisi economica, il Presidente Obama annunciò che il suo obiettivo per l’economia USA era quello di raddoppiarne le esportazioni. È una strategia comune per i Paesi che desiderano crescere. Tuttavia, si noti che per ogni esportazione ci dev’essere un’importazione; per ogni surplus commerciale deve esistere un deficit commerciale. Ovviamente è impossibile che tutti i Paesi, contemporaneamente, crescano in questo modo – fondamentalmente si tratta della strategia del “rubamazzo” [1].
La popolazione nazionale non riceve alcun beneficio reale netto dalla quantità di risorse che vengono mobilitate per produzione destinata all’estero. È vero, la forza lavoro e le altre risorse che non sarebbero state impiegate sono ora occupate; i lavoratori che non avrebbero ricevuto un salario ora hanno un reddito; i proprietari delle imprese che non avrebbero venduto la produzione, ora incassano profitti. Eppure, se la produzione realizzata viene trasferita all’estero, non c’è produzione addizionale che i residenti possano acquistare. Quel che succede è che la produzione esistente viene ridistribuita a questi ulteriori potenziali acquirenti – che hanno ora un reddito da salari e profitti. Perciò, se abbiamo solo messo al lavoro risorse altrimenti non impiegate per produrre beni d’esportazione, non c’è un beneficio netto – a livello aggregato, la popolazione nazionale sta lavorando “più duramente” ma non sta consumando di più, perché la “torta” per essa disponibile non è aumentata. Il processo redistributivo in sé porterà probabilmente ad inflazione, poiché coloro che ora hanno un posto di lavoro competono per un pezzo della torta, facendo aumentare i prezzi. Di certo, questo potrebbe essere un esito socialmente desiderabile – la produzione è ridistribuita dagli “abbienti” ai “non abbienti”, e far lavorare i disoccupati arreca numerosi benefici alle famiglie e alla società nel suo complesso (in termini di [riduzione della] criminalità, [delle] separazioni familiari e [di aumento della] coesione sociale).
Si noti però che tutto ciò è basato sul presupposto che il Paese abbia dal principio una capacità produttiva in eccesso. Se operasse in [condizioni di] piena occupazione di forza lavoro, impianti e attrezzature, allora l’aumento delle esportazioni potrebbe avvenire solo attraverso la riduzione dei consumi interni, degli investimenti o dell’uso di risorse da parte dello Stato. La forza lavoro ed altre risorse sarebbero spostate dalla produzione destinata al mercato interno verso quella volta a soddisfare la domanda estera. Chiaramente, sarebbe di solito preferibile raggiungere la piena occupazione producendo per uso interno anziché per l’esportazione. L’occupazione addizionale genererebbe sia reddito che maggiore produzione. La “torta” nazionale sarebbe più grande, così, invece di una redistribuzione dagli “abbienti” ai “non abbienti”, i nuovi lavoratori otterrebbero fette di una torta più grande.
Un’altra ovvia precisazione [da fare] è che realizzare una produzione per l’estero può essere nell’interesse economico e politico di un Paese. Un Paese potrebbe realizzare beni e servizi e trasferirli all’estero per ragioni umanitarie – ad esempio, come un aiuto nel caso di un disastro. Potrebbe realizzare equipaggiamenti militari per aiutare gli alleati. L’investimento diretto estero potrebbe aiutare un Paese in via di sviluppo che potrebbe diventare un partner strategico. E certamente non v’è ragione per cui un Paese dovrebbe realizzare un pareggio delle proprie partite correnti su base annuale – una cosa sostanzialmente impossibile all’interno di un’economia altamente globalizzata in cui i processi produttivi sono legati a livello internazionale. Non vorremmo pertanto ignorare [le] diverse ragioni strategiche per cui si esporta la produzione e si realizzano surplus commerciali.
Concludiamo [dicendo] che dovremmo avere un approccio “funzionale” anche nei confronti del commercio internazionale: non ha più senso, per uno Stato sovrano che emette la propria valuta [in regime di cambio] fluttuante, perseguire un surplus commerciale al fine di conseguire un surplus del proprio bilancio. La massimizzazione di un surplus delle partite correnti impone costi reali netti (considerate le precisazioni discusse in precedenza). È meglio perseguire invece la piena occupazione a livello nazionale e lasciare che i saldi delle partite correnti e di bilancio [pubblico] si modifichino. Il che è decisamente migliore rispetto alla strategia usuale – che consiste nel raggiungere la piena occupazione perseguendo un surplus commerciale.
Ora passeremo a [discutere] una politica che genererà piena occupazione a livello nazionale. La prossima settimana approfondiremo la proposta del datore di lavoro di ultima istanza.
Note del Traduttore
1.^ Intervento di politica economica che produce benefici al Paese che lo adotta, a danno degli altri; fonte: Treccani.it
Originale pubblicato il 29 gennaio 2012
Traduzione a cura di Andrea Sorrentino, Supervisione di Maria Consiglia Di Fonzo