L'Editoriale

L’ideologismo del libero mercato e la bugia dell’austerità

L'ideologismo del libero mercato e la bugia dell'austerità

L’ideologismo del libero mercato ed i suoi limiti

Uno dei più noti e autorevoli vocabolari della lingua italiana [1] definisce ideologismo la “tendenza di chi considera la realtà in chiave esclusivamente ideologica”. Partendo da questa definizione, si può dire che si ha ideologismo (anche) ogniqualvolta si interpreta forzatamente la realtà sociale alla luce di una determinata teoria. Una teoria che cerca di spiegare i fenomeni umani (storici, sociali, economici) – per quanto valida nei suoi fondamenti – non può che avere un valore esemplificativo e, quindi, approssimativo, di ciò che cerca di descrivere; allorché invece si pretenda di attribuire alla stessa un valore assoluto, e quindi la capacità di spiegare in maniera compiuta e incontestabile i rapporti sociali, si cade appunto nell’ideologismo.

Una situazione di questo tipo pare ravvisabile con riferimento al modello economico liberista, che propugna il libero operare dei soggetti economici privati allo scopo di metterli nelle condizioni di allocare al meglio le risorse economiche e così realizzare, grazie alla “mano invisibile” del mercato [2], il benessere collettivo.

È bene precisare che quando si parla di libero operare dei soggetti economici privati ci si riferisce alla possibilità, per costoro, di agire sul mercato senza condizionamenti indotti dallo Stato, con i suoi interventi nella sfera economica e sociale tramite la spesa pubblica.

Il modello liberista, così come sinteticamente delineato, presenta di certo una sua valenza per palesare gli innegabili vantaggi connessi alla concorrenza fra imprese private. Risulta, però, assai fuorviante cercare di inquadrare le complesse dinamiche dei sistemi economici unicamente sotto la prospettiva liberista, additando il persistere di problematiche quali l’elevata disoccupazione o la crescita contenuta del PIL alla limitazione dei margini d’azione che le forze di mercato incontrano in virtù del ruolo economico svolto dallo Stato.

Diverse sono le considerazioni a supporto di quanto appena affermato.

Da un lato, va osservato come la scienza economica conosca situazioni note come “fallimenti del mercato”, in cui il libero operare delle forze di mercato non permette agli individui di godere dei benefici della concorrenza (monopoli naturali), o impedisce alla collettività di ottenere il bene desiderato (beni pubblici in senso economico), oppure ancora porta alla scomparsa del mercato (comportamenti opportunistici causati da asimmetrie informative).

Dall’altro lato, l’esperienza storica palesa che il mercato, abbandonato a se stesso, tende a generare instabilità. La cosiddetta “legge degli sbocchi” (o legge di Say) – presupposto fondamentale per l’illimitata fiducia liberista nel mercato – a detta della quale tutta la produzione viene venduta, è stata smentita dall’evidenza storica, ossia da quelle crisi da “sovrapproduzione” di cui già Marx ed Engels parlavano nel Manifesto del Partito Comunista (e che oggi noi riconosciamo come dovuta ad un deficit pubblico troppo piccolo). Al contrario, dagli anni della “Grande Crisi” fino ai tempi nostri il rilancio dell’economia è stato reso possibile dal ruolo propulsivo della domanda svolto dalla spesa pubblica [3].

Ma, anche a voler ammettere che il libero mercato assicuri sempre un’ottimale assetto del sistema economico, la visione liberista si dimostra comunque miope. Essa, infatti, limita il suo sguardo alla sola efficienza economica ed al benessere materiale, lasciando a questi due fattori di realizzare anche condizioni di giustizia sociale. Non è però affatto scontato che il mercato, pur quando assicuri crescita, possa contemporaneamente realizzare giustizia sociale. Ne sono riprova le forti prese di posizione assunte da autorevoli studiosi – come il Premio Nobel Joseph Stiglitz – sul crescente divario tra ricchi e poveri oggi riscontrabile nel Paese per eccellenza ispirato al libero mercato, gli USA.

La critica della MMT alla teoria del libero mercato

La critica all’astratta costruzione liberista appare poi rafforzata ove inquadrata alla luce della MMT. Quest’ultima, in particolare, dimostra le contraddizioni interne alle quali va incontro l’idea del libero mercato ove pretenda di escludere o comunque contrarre al massimo la sfera d’intervento statale e di assicurare la più ampia libertà di movimento agli operatori privati.

Innanzitutto, la scienza economica riconosce che non può aversi mercato, così come comunemente lo intendiamo, senza quel fondamentale strumento di intermediazione degli scambi rappresentato dalla moneta. Ma la MMT insegna che la valuta nasce a seguito della necessità dello Stato di spostare, attraverso la spesa pubblica, risorse reali dal settore privato a quello pubblico. Ne discende che in assenza di un intervento dello Stato nella società e nell’economia non si avrebbe valuta e di conseguenza, in mancanza di questa, nemmeno mercato.

Va altresì aggiunto che la creazione ed il controllo della valuta da parte dello Stato avviene, per costruzione, in regime di monopolio. È quindi pura utopia delineare un modello economico fondato sulla concorrenza (tendenzialmente) perfetta delle imprese private quando gli scambi a cui le stesse danno vita sono resi possibili dall’oggetto di un monopolio.

La giustificazione delle politiche di austerità alla luce della teoria liberista

Pur a fronte di questi limiti, il modello liberista viene chiamato in causa per giustificare l’austerità delle politiche di bilancio dello Stato. Infatti, nella misura in cui l’austerità porta a ridurre la spesa pubblica, la stessa ridimensiona la capacità dello Stato di influenzare le variabili economiche; tale ridimensionamento, a sua volta, dovrebbe favorire l’azione delle imprese private e, tramite ciò, rilanciare la crescita.

Dall’ideologismo del libero mercato si passa così alla bugia dell’austerity. Il sostenere che le politiche di austerità fiscale, rivalutando il ruolo delle forze di mercato, portino a crescita economica, è confutato dalla circostanza che le misure restrittive di bilancio imposte oggi in Eurozona mantengono l’economia europea in una (lunga) fase di stagnazione. In realtà – cosa riconosciuta ormai anche da economisti molto vicini all’approccio dominante, come Thomas Piketty – esiste tra austerità e stagnazione un circolo vizioso, per cui le politiche di rigore finanziario depauperano ampi strati della popolazione, deprimendo i consumi ed incidendo quindi negativamente sulla crescita del PIL.

Abbiamo fin qui parlato di come, attraverso l’ideologismo del libero mercato, vengano giustificate le misure di austerità fiscale.

Il nostro ragionamento, tuttavia, peccherebbe di ingenuità se si limitasse a ritenere che le politiche di austerità volute dall’Unione Monetaria Europea siano la mera conseguenza di una sorta di furore ideologico.

Certamente nella loro origine pesa l’ideologismo liberista, sennonché sia possibile ritenere che un’austerità giustificata alla luce dell’ideologismo sia anche, se non soprattutto, uno schermo con cui mascherare il volere dei gruppi d’interesse che plasmano l’impostazione politica dell’Unione Monetaria Europea. Quest’ultima, in virtù di un difetto congenito connesso al compromesso governativo che ha portato alla sua nascita, è politicamente dominata da alcuni centri di imputazione di interesse franco-tedeschi. Ed è la Germania che, in coerenza con la sua tradizione di rigore di bilancio più che con il pensiero liberista (ricordiamo che l’economia tedesca è un’economia sociale di mercato), ha associato all’euro una linea di austerità che in questi anni di crisi si sta rivelando controproducente, oltre che per singoli Stati aderenti, anche per la stessa Unione Monetaria, quantomeno sul piano politico [4].

Tuttavia, affermare che l’establishment tedesco condanni buona parte del resto d’Europa alla stagnazione ed alla deflazione è una cosa che, a livello governativo, non tutti possono politicamente permettersi di denunciare con assoluta libertà. Ecco allora che l’ideologismo liberista torna utile per sostenere la logica dell’austerità, anche al di là di un’effettiva adesione allo stesso, allo scopo di celare gli squilibrati rapporti di forza esistenti nell’Unione Monetaria.

 

Note dell’Autore

1.^ Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, 2017
2.^ A. Smith, La ricchezza delle nazioni, 1776
3.^ Non si può escludere la validità dell’assunto liberista per il quale nel lungo periodo le forze di mercato sono in grado di portare il sistema economico in un equilibrio di pieno utilizzo dei fattori produttivi e, quindi, di piena occupazione. Non si può però nemmeno tacere l’arguta replica di Keynes a questo assunto secondo cui nel lungo periodo saremo tutti morti!
4.^ Per capire come, per un difetto strutturale, l’Unione Monetaria Europea risulti plasmata dalla Germania, si rimanda alle parole di G. Nardozzi nel Mondo alla rovescia, 2015, dove afferma: “Se la riunione venne accettata fu perché la Germania di Helmut Kohl concordò, come suo atto di fede alla coesione europea, la rinuncia alla propria moneta e la creazione dell’euro. Purché la moneta unica mostrasse la stessa stabilità del marco tedesco e non facesse da scudo a comportamenti opportunistici nell’indebitamento pubblico dei paesi partecipanti.
La BCE venne pertanto creato a immagine e somiglianza della Deutsche Bundesbank, con il solo obiettivo della stabilità dei prezzi. D’altra parte, l’uso dello strumento della politica fiscale venne vincolato, prima dai noti parametri di Maastricht e poi, in seguito alla crisi greca, pressoché azzerato dal Fiscal Compact.”


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