L'Editoriale

La subalternità della classe media

La subalternità della classe media

La classe media è uno strato sociale “cuscinetto”. Figlia, in una certa misura, della necessità del vertice delle catene di comando capitalistico di stabilizzare il proprio potere.

In Italia, dopo l’autunno caldo del 1969, è stato avviato un profondo processo di ristrutturazione produttiva. Il fine era di mantenere nelle grandi aziende private solo le fasi produttive principali – quelle che necessitano dei macchinari più costosi e tecnologicamente avanzati – disarticolando le restanti fasi in piccole aziende padronali e in lavoro a domicilio. Da qui ha origine parte dell’esplosione delle PMI che si è avuta negli anni ’70 e che si è sviluppata negli anni a seguire sotto la pressione dell’espansione del settore terziario.

Questa trasformazione della struttura socioeconomica, ha portato sul piano politico-culturale una fetta crescente della popolazione a non percepirsi più come “classe lavoratrice”, non ritrovandosi più quotidianamente a spartire spazi e pensieri con grandi masse di persone, con cui condividere condizioni e prospettive. La trasformazione ha infatti creato una popolazione di piccoli imprenditori, liberi professionisti e lavoratori autonomi molto più inclini ad interiorizzare valori, credenze e sistemi di pensiero che mimano, più o meno goffamente, quelli propri delle classi dominanti.

La direzione intellettuale e morale di questo strato della popolazione viene in qualche misura controllata dall’esterno con due conseguenze paradossali: da una parte la classe media sostiene sovente programmi di politica economica che vanno contro il suo stesso interesse e dall’altra rivolge verso sé stessa, o alle classi meno abbienti, la rabbia sociale che emerge dalle frustrazioni delle sue ambizioni. Ambizioni il più delle volte mortificate dai rapporti di forza e dall’atteggiamento conservativo, in ambito di politica economica, delle grandi realtà esportatrici che vedono a proprio svantaggio la crescita della domanda interna e dell’occupazione. Parliamo ovviamente di realtà che a livello UE sono organizzate in comitati d’affari come Business Europe – che in Italia si chiama Confindustria – e nell’ERT – European Round Table of Industrialists.

Non è quindi un caso il fatto che allo scoppio della crisi economica, anche la classe media sostenne in larga parte le politiche di austerità (e in particolare il governo Monti), le cui conseguenze nefaste non portarono ad una loro (legittima) sollevazione, ma bensì ad un aumento di suicidi.

E così ci troviamo ad avere associazioni di categorie del commercio, dell’artigianato e della piccola impresa (fortunatamente vi sono anche delle eccezioni) abituate a rimasticare proposte e discorsi propri di Confindustria e dei suoi organi di comunicazione. A tal punto da avere rappresentanti di commercianti che si dicono preoccupati del debito pubblico (la cui diminuzione implica l’aumento della tassazione ed il crollo dei consumi), o realtà legate alla piccola industria sostenere governi che tagliano finanziamenti alla formazione della loro futura forza lavoro.

Misure che chiaramente possono avere un impatto positivo solo su chi non vive di domanda interna, che può permettersi di formare direttamente i propri lavoratori ed attingere dall’estero per i colletti bianchi, girando poi a proprio vantaggio un indebolimento del resto del tessuto produttivo.

Non c’è crisi finanziaria così profonda che un sufficiente taglio delle tasse o aumento della spesa pubblica non possa risolvere.

[Warren Mosler]

Nulla è però completamente perduto e a guardar bene c’è, in Italia come all’estero, chi rompe con l’effimera paura del debito pubblico (che se è garantito dalla Banca Centrale non può creare problemi), affermando chiaramente che è tempo di abbassare le tasse ed aumentare la spesa pubblica (in investimenti e non) per creare domanda interna, invece di puntare solo sull’export. Al fine di sostenere un tale discorso, è però necessario un blocco sociale che riesca a combinare ceti medi e classi popolari, mettendo all’angolo quelle realtà che traggono profitto e potere dall’indebolimento della struttura produttiva di un Paese.

Ma fino a che la via allo sviluppo sarà individuata negli investimenti esteri, mentre le tasse al tessuto produttivo domestico saranno alzate per “rimanere nei parametri europei”, l’Italia continuerà sempre più a diventare la periferia di qualcun altro e la sua classe media a perdere potere politico, economico e sociale.

 

Articolo pubblicato sul numero di aprile 2019 della rivista Bergamo Economia Magazine


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