Gli economisti della MMT affermano che la gestione della pressione inflazionistica possa essere fatta senza intrappolare milioni di persone nella disoccupazione perpetua. Di fatto sostengono che sia possibile utilizzare la vera piena occupazione proprio per contribuire a stabilizzare i prezzi.
[Stephanie Kelton, “Il mito del deficit”]
È di qualche giorno fa il monito lanciato da diversi economisti sulla crescita inflazionistica. I principali media rilanciano preoccupati, mettendoci in guardia dalle possibili conseguenze.
I dati in arrivo dalla Cina, dagli Stati Uniti e anche da alcune nazioni del vecchio continente preoccupano i mercati finanziari e le Borse hanno registrato delle perdite, ma la relazione tra i due fatti è irrazionale e non ha un nesso tecnico.
L’inflazione cinese balza al 6,8%, il dato negli Stati Uniti è superiore alle attese salendo al 3,4% e anche in Germania l’allarmismo non si risparmia.
Nella cultura economica mainstream il pericolo inflazionistico è associato in automatico al concetto di iperinflazione, dove il potere di acquisto dei salari si riduce giornalmente. L’associazione inflazione-iperinflazione crea nella popolazione visioni distorte della realtà, inducendole a tollerare dinamiche molto negative solo perché percepite di minore gravità come, per esempio, quella della disoccupazione involontaria.
Ma non solo, perché un certo tasso di disoccupazione viene giustificato addirittura come cura contro il pericolo inflazionistico. Questo rientra nei presupposti degli approcci teorici di matrice liberista, sostenendo che ad un aumento dell’inflazione corrisponda una riduzione dei disoccupati, ragion per cui se si vuole contenere l’inflazione bisogna aumentare il numero dei disoccupati. Rispetto a questo quadro teorico, il pensiero mainstream condanna i prolungati aumenti del deficit del governo perché portatori di inflazione, accettando semmai aumenti temporanei. La curva di Phillips, infatti, sostiene che ci sia un tasso naturale di disoccupazione coerente con un’inflazione stabile. Ma negli ultimi cinquant’anni innumerevoli prove empiriche hanno dimostrato nei fatti che questa correlazione è del tutto priva di fondamento scientifico. Anzi, la sfida attuale è la capacità di saper governare l’inflazione aumentando il più possibile il tasso di occupazione, fino alla piena occupazione.
Oggi gli economisti hanno gli strumenti per capire cosa crea un aumento dei prezzi. Si possono simulare con accuratezza i comportamenti di produzione e di spesa per comprendere come l’indice di inflazione possa variare e adottare le opportune politiche per evitare l’aumento del tasso di inflazione. La Modern Money Theory fa questo.
La stabilità dei prezzi può essere assicurata anche tramite il pieno impiego, ottenuto attraverso un piano di lavoro garantito da un salario minimo, che rappresenta il prezzo àncora dell’economia, ovvero il prezzo base a cui fanno riferimento tutti gli altri prezzi.
L’orientamento generale sta cambiando. Si moltiplicano le voci che pongono occupazione e interesse pubblico come obiettivi prioritari rispetto all’allarmismo generato dagli zero virgola di aumento dell’inflazione. È tempo di abbandonare per sempre le false credenze e i riti tribali.
Articolo pubblicato sul numero di maggio 2021 della rivista Bergamo Economia Magazine
Premetto che sono un convinto sostenitore della MMT e della spesa pubblica in deficit per sostenere l’economia e arrivare alla piena occupazione.
Detto questo, ho un dubbio.
In breve. La MMT afferma che uno Stato con sovranità monetaria può spendere in deficit in quanto tecnicamente non può fallire perché può sempre emettere nuova moneta (lo affermava nel 2011 anche l’ex presidente della FED Alan Greenspan, che non era sicuramente un keynesiano).
Uno Stato con sovranità monetaria non ha bisogno di finanziare la propria spesa con le tasse pagate dai contribuenti o con l’emissione di titoli di debito sui quali altrimenti dovrà pagare onerosi interessi.
Con la MMT i tassi di interesse rimangono quindi fissi a zero.
Il mio dubbio è questo. Se i tassi di interesse rimangono sempre fissi a zero e lo Stato spende in deficit fino alla piena occupazione, avremo dei periodi piuttosto lunghi (anche di anni) in cui l’inflazione (anche se sotto controllo) raggiungerà magari livelli compresi tra il 3% e il 5% annuo.
Stando così le cose, i tassi d’interesse reali sarebbero negativi tra il -3% e il -5% annuo. In una situazione del genere chi ne pagherebbe le maggiori conseguenze in termini di perdita di potere d’acquisto?
I ricchi o la upper middle class? No, perché potrebbero investire i loro ingenti capitali in Azioni o Real Assets per evitare la perdita di potere d’acquisto.
Ne pagherebbero le conseguenze, come al solito, la classe media e i poveri, i quali vedrebbero drasticamente svalutati i propri pochi risparmi.
In una situazione come quella da me descritta occorrerebbe prevedere dei meccanismi automatici in grado di compensare tali perdite di potere d’acquisto (una maggiore tassazione per le classi più abbienti e agevolazioni fiscali per le classi più povere). Altrimenti la MMT potrebbe trasformarsi nella teoria monetaria che toglie ai poveri per dare ai ricchi!