La Teoria

La rivelazione della moneta fiat

La rivelazione della moneta fiat

La maggior parte delle analisi sulla moneta endogena iniziano con una definizione della moneta in sé:

La moneta fiat è una moneta rappresentativa (o moneta-gettone) – ossia un qualsiasi oggetto costituito da un materiale il cui valore intrinseco è indipendente dal suo valore nominale. Oggi tipicamente di carta, eccezion fatta per le monete di piccolo taglio create ed emesse dallo Stato, non è per legge convertibile e non ha un valore prefissato in termini di altri oggetti. (Keynes, 1930, p.7)

Definiremo moneta fiat la valuta emessa dallo Stato il cui valore è puramente nominale. (Wray, 1990, p. 27)

Mosler offre ai Post-Keynesiani una seconda preziosa intuizione nella sua definizione di moneta fiat:

La moneta fiat è un credito fiscale non garantito da alcun bene tangibile. (Mosler, 1995, p.4)

Per riuscire ad afferrare appieno questo concetto si consideri il processo di monetizzazione avvenuto nelle colonie africane per mano dei colonizzatori. Le comunità africane, occupate nella produzione di sussistenze e nel commercio interno, non avevano alcuna necessità di valuta europea. Walter Rodney descrive una pratica diffusa cui le potenze coloniali ricorrevano per costringere gli Africani a utilizzare la loro valuta:

Laddove la terra era ancora in mani africane, i governi coloniali obbligavano gli Africani a produrre colture destinate al mercato indipendentemente da quanto bassi fossero i prezzi. La tecnica preferita era quella della tassazione: introdussero tasse da pagare in moneta su numerosi oggetti – bestiame, terra, case e sulle persone stesse. La moneta con cui pagare le tasse era ottenuta dalla vendita della produzione di colture destinate al commercio o del lavoro in fattorie o miniere di proprietà europea. (Rodney, 1972, p. 165, enfasi originale)

Le potenze coloniali – inglesi e non – il cui interesse era che gli Africani producessero colture destinate al mercato e offrissero lavoro in cambio di un salario, rifiutarono che i pagamenti avvenissero in natura e a tal fine imposero tasse che potevano essere pagate unicamente con la loro valuta. Questo si dimostrò un mezzo estremamente efficace per spingere gli Africani a produrre colture destinate al commercio e a offrire il loro lavoro in cambio di un salario. Inoltre l’autorità coloniale si trovava anche nella posizione di determinare il prezzo a cui avrebbe acquistato quei beni e quei servizi in quanto era l’unica fonte di sterline britanniche a livello locale. Nel suo libro A Political Economy of Africa anche Claude Ake tratta di questo processo di monetizzazione delle colonie africane:

Le economie africane furono monetizzate attraverso l’imposizione di tasse e l’obbligo di pagarle in valuta europea. Il pagamento di tasse non era un’esperienza nuova per l’Africa, l’elemento di novità era rappresentato dall’obbligo di pagarle in valuta europea. Tale obbligo svolse un ruolo centrale nella monetizzazione delle economie africane e nella diffusione del lavoro salariato. (Ake, 1981, pp. 3334)

È evidente che l’imposizione del sistema monetario coloniale alle colonie africane dipese molto dall’adozione di questo metodo di tassazione. Samir Amin (1976) condivide questo punto di vista sostenendo che la competizione non era un elemento essenziale per la vita delle comunità dei villaggi africani, che nell’area occidentale si trovavano ancora in un periodo di transizione dal feudalesimo al capitalismo. La “monetizzazione dell’economia primitiva” era quindi vista dalle potenze coloniali come un passo importante per l’annessione dell’Africa e delle sue risorse al sistema capitalistico globale emergente. Secondo Amin il metodo più diffuso per assicurare questo risultato consisteva nell’imporre alla popolazione africana “l’obbligo di pagare tasse in moneta” (ibid., 1976, p. 204).

Questi esempi illustrano in che modo le colonie africane sono state monetizzate. Riconoscendo che l’ingegnoso governatore coloniale avrebbe anche potuto usare una moneta propria invece della sterlina inglese, rinforziamo l’analisi di Mosler e il suo “modello familiare della valuta”. Il genitore ricopre il ruolo dello Stato e desidera che i figli facciano alcuni lavoretti domestici; decide allora di offrire i suoi biglietti da visita come remunerazione per i lavoretti svolti, ma i figli non sono in alcun modo incentivati ad accumulare quei biglietti e pertanto non sono neanche motivati a fare i lavoretti che il genitore desidera. Tuttavia nel momento in cui il genitore impone a ogni figlio il pagamento di una tassa per poter continuare a vivere in quella casa, una tassa che potranno pagare esclusivamente in biglietti da visita, il padre genera la domanda per i suoi biglietti e i lavoretti cominciano ad essere svolti.

Gli esempi delle colonie africane e del “modello familiare della valuta” descritti da Mosler mostrano come la moneta fiat abbia origine con una tassa. Il Governo statunitense, per esempio, impone le tasse e richiede per legge che queste siano pagate in dollari. La ragione che sottostà all’accettazione del dollaro del Governo USA è che esso è indispensabile per pagare le tasse.

Mosler conclude:

Le tasse servono a creare domanda di spesa federale di moneta fiat, non per ottenere gettito di per sé. (Mosler, 1995, p. 5)

Così come in precedenza ha sostenuto che il governo non emette debito per finanziarsi, conclude che neanche la tassazione va intesa come un’operazione di finanziamento. Questa si può considerare una terza estensione dell’approccio Post-Keynesiano alla moneta.

Inoltre Mosler riconosce che in quanto monopolista dei propri biglietti da visita il genitore non può riscuotere un ammontare di tasse sotto forma di biglietti da visita maggiore della quantità di biglietti che ha distribuito, il che lo porta a formulare il suo quarto contributo:

Di fatto, una tassa creerà una domanda ALMENO pari alla stessa quantità di spesa federale. Un bilancio in pareggio è, sin dal principio, il MINIMO che può essere speso. (ibid.)

Mosler aggiunge un elemento al modello familiare della valuta per mettere in luce la natura del debito federale in un sistema monetario fiat. Il genitore offre di pagare un tasso d’interesse (in termini di biglietti da visita) ai figli che non utilizzano i propri biglietti depositandoli per una notte. Rendendo i biglietti fruttiferi il genitore ha di fatto preso in prestito i biglietti in circolazione. Come scrive Mosler, “I depositi di biglietti da visita sono il debito pubblico dovuto dal genitore”. (ibid.)

Ancora una volta si noti che il genitore non si indebita per finanziare le spese ma per supportare il tasso d’interesse e che “offrendo di pagare un interesse (finanziando il deficit), non riduce la ricchezza (misurata dal numero di biglietti da visita) di ciascun figlio”. (ibid.)

La necessità della tassazione descritta da Mosler è stata riconosciuta da Minsky già prima:

In un’economia in cui il debito pubblico rappresenta un asset rilevante sui libri contabili delle banche di emissione di certificati di deposito, è l’obbligo di pagare le tasse ad attribuire valore alla moneta nel sistema economico. […] spinte dall’obbligo di pagare le tasse, le persone lavorano e producono per ottenere il mezzo attraverso il quale le tasse possono essere pagate. (Minsky, 1986, p. 231)

Ciò che è evidente è che questo punto essenziale non è stato discusso ulteriormente nella letteratura contemporanea e in Minsky appare solo come nota a piè di pagina. Mosler ha riconosciuto ed elaborato il significato della tassazione in relazione alla moneta fiat, il che porta alla quinta estensione dell’approccio Post-Keynesiano.

 

Originale pubblicato nel giugno 1996

Traduzione a cura di Andrea Sorrentino, Supervisione di Maria Consiglia Di Fonzo


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