Parte il nuovo Governo. A meno di riaggiustamenti dell’ultimo minuto, ne conosciamo il programma. Realizzare i contenuti del contratto di governo significa, a monte, delineare i confini dello spazio della politica economica. Se quello spazio sarà ampio o ristretto dipende in prima istanza dai vincoli alla spesa che uno Stato si auto-impone. Uno Stato mobilita risorse reali, realizza cose, prima di tutto nella misura in cui si concede di spendere per farlo. Quando lo Stato si astiene dallo spendere nonostante vi sia forza lavoro non impiegata in processi produttivi, sta rinunciando a parte della produzione e a parte delle realizzazioni a cui puoi arrivare.
Quando uno Stato si astiene dall’ampliare il deficit in presenza di disoccupazione o sottoccupazione di lavoratori e aziende, sta negando a se stesso la possibilità di essere produttivo, perché decide di lasciare nella completa improduttività una parte delle risorse reali presenti sul suo territorio.
Non spendere è sempre meno produttivo che spendere male.
Se partiamo dal presupposto che le valute sono creazioni statali, dev’essere chiaro che ogni astensione dalla spesa è sempre una scelta politica. Dev’essere sempre chiaro che il debito pubblico è una scrittura contabile. Se in Eurozona il debito pubblico può creare problemi, è perché l’Eurozona, che crea l’euro, decide così. Non i mercati. Non la natura intrinseca dell’economia capitalistica, ma l’Unione europea.
La povertà, le disuguaglianze, i rapporti di forza subalterni dei lavoratori sono una conseguenza prima di tutto di questa scelta di fondo. Il programma migliore del mondo, in termini di diritti del lavoro, lotta alla povertà, tutela del risparmio, è un programma vuoto se:
- non si spende per realizzarlo,
- si lascia la disoccupazione dilagare.
Anche il programma migliore si rivela uno specchietto per le allodole se non ci sono queste due condizioni.
Veniamo ora al contratto di governo. Pagina 17, capitolo “Debito Pubblico e Deficit”:
L’azione del Governo sarà mirata ad un programma di riduzione del debito pubblico non già per mezzo di interventi basati su tasse e austerità – politiche che si sono rivelate errate ad ottenere tale obiettivo – bensì per il tramite della crescita del PIL, da ottenersi con un rilancio sia della domanda interna dal lato degli investimenti ad alto moltiplicatore e politiche di sostengo del potere di acquisto delle famiglie, sia della domanda estera, creando condizioni favorevoli alle esportazioni. Al fine di consolidare la crescita e lo sviluppo del Paese riteniamo prioritario indurre la Commissione europea allo scorporo degli investimenti pubblici produttivi dal deficit corrente in bilancio, come annunciato più volte dalla medesima Commissione, ma mai effettivamente e completamente applicato. Per quanto riguarda le politiche sul deficit si prevede, attraverso la ridiscussione dei Trattati dell’UE e del quadro normativo principale a livello europeo, una programmazione pluriennale volta ad assicurare il finanziamento delle proposte oggetto del presente contratto attraverso il recupero di risorse derivanti dal taglio agli sprechi, la gestione del debito e un appropriato e limitato ricorso al deficit. Intendiamo inoltre pervenire, come evidenziato dalla Corte dei Conti, a una massima trasparenza sulle operazioni in derivati effettuate dagli organi dello Stato e enti locali limitandole a quelle aventi lo scopo di migliorare la spesa legata agli strumenti di indebitamento.
Alla luce delle problematicità emerse negli ultimi anni, l’Italia chiederà la piena attuazione degli obiettivi stabiliti nel 1992 con il Trattato di Maastricht, confermati nel 2007 con il Trattato di Lisbona, individuando gli strumenti da attivare per ciascun obiettivo.
Permane nel programma un’accezione negativa del debito pubblico, che però è la valuta che lo Stato ha immesso nel settore privato e che non ha ancora raccolto con le tasse (e che prende tre forme: riserve bancarie, contanti e titoli di Stato).
Voler ridurre il debito pubblico equivale a ridurre la ricchezza finanziaria privata. Se lo Stato ritira più soldi di quelli che immette con la spesa, necessariamente si riduce il risparmio privato.
Partiamo male, ma… c’è un ma. Il contratto parla di scorporare gli investimenti produttivi dal calcolo del deficit. Al di là di come un investimento potrà essere etichettato come produttivo o meno, questo punto potrebbe essere un modo, in linea teorica, di aumentare il deficit quanto basta per eliminare una buona parte della disoccupazione e della povertà.
Lo Stato potrebbe riacquisire uno spazio di politica economica ampio, riuscendo potenzialmente a riportare in primo piano una politica di sviluppo industriale e piena occupazione, cambiando così radicalmente il significato storico dell’UE.
Savona questo lo sa e forse, anche nel nuovo ruolo, ha l’autorevolezza, l’esperienza, gli appoggi politici e sociali e la legittimazione istituzionale per portare l’UE a un bivio storico: negare questa evoluzione (nonostante la stessa Commissione europea vi abbia fatto cenno) o cambiare il DNA dell’UE in un aspetto fondamentale.
Giusto per essere chiari: questa riforma del conteggio del deficit è qualcosa a cui Varoufakis non si era mai neanche avvicinato. E lo fecero fuori ugualmente.
Articolo pubblicato sul numero di maggio 2018 della rivista Bergamo Economia Magazine