In data 5 maggio 2020 l’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica, con direttore Carlo Cottarelli, ha pubblicato un interessante articolo a firma di Galli, Angei e Frattolasu, avente a oggetto le differenze che intercorrono tra gli acquisti di titoli di Stato sul mercato primario e sul secondario da parte della Banca centrale. L’Osservatorio, che durante questi anni si è particolarmente distinto per le sue posizioni pro-austerità, questa volta ha lasciato tutti piacevolmente stupiti. Vale la pena soffermarsi su due punti principali dell’articolo:
- In quelle righe si sostiene che, dal punto di vista delle condizioni di finanziamento per lo Stato, sembra esserci poca differenza tra gli acquisti sul mercato primario o secondario da parte della Banca centrale. Infatti, se con un intervento sul primario la BC influenza direttamente il tasso d’interesse sui titoli di Stato, con un intervento sul secondario l’autorità monetaria è comunque in grado di influenzare il tasso di interesse a condizione che “il programma di acquisti della banca centrale sia noto agli operatori privati e che sia di entità significativa”. Viene inoltre ricordato che gli acquisti di titoli sul mercato secondario sono effettuati dal 2015 dalla BCE tramite il Quantitative Easing, che in questo modo riesce a influenzare i rendimenti dei titoli di Stato dei Paesi membri dell’euro area.
Questa analisi è contraddistinta da due elementi: il primo è che è corretta, il secondo è che si pone in netto contrasto con quanto da sempre sostenuto dall’Osservatorio, e in particolare da Galli e Cottarelli, che hanno sempre legato il tasso d’interesse all’entità del deficit pubblico. Impossibile infatti dimenticare gli innumerevoli articoli, interviste e comparse negli studi televisivi in cui Cottarelli ammoniva del rischio per il quale un aumento del disavanzo fiscale avrebbe portato a aumento del tasso d’interesse sui titoli di Stato e, quindi, a un aumento dello spread. Di conseguenza, secondo quanto sostenuto da questi economisti, lo Stato italiano avrebbe necessariamente dovuto rinunciare a programmi di spesa in deficit (vuoi che essi mirassero ad aumentare l’occupazione, a migliorare il sistema sanitario, o ad evitare che i ponti crollassero) al fine di “salvaguardare il tasso di interesse e quindi la sostenibilità del debito pubblico”. Con questo articolo, invece, i Compagni Cottarelliani ci dicono che la Banca centrale è perfettamente in grado di influenzare il tasso d’interesse sui titoli di Stato. Solo ora (forse) si è compreso come il tasso d’interesse sia strettamente influenzato dall’indirizzo di politica monetaria della Banca centrale e non dal sentiero della politica fiscale. Tra gli altri, questo concetto è stato particolarmente sottolineato da Claudio Borio, Capo del Dipartimento monetario ed economico della Banca dei Regolamenti Internazionali, e Piti Disyatat, in alcuni loro brillanti lavori. - Vi è un ulteriore punto di estrema importanza nell’articolo. Alla domanda sul motivo per cui esiste il divieto di acquisti di titoli sul primario, vale a dire il finanziamento diretto della spesa del governo da parte della BC, gli autori trovano la causa in una “motivazione principalmente simbolica e istituzionale”: si vuole in questo modo sottolineare la separazione dei ruoli tra Banca centrale e governo al fine di tutelare l’indipendenza della banca centrale ed evitare inoltre di interferire sulla formazione del prezzo di mercato per i titoli collocati sul primario. Qui veniamo al punto: come ho messo in luce nella mia pubblicazione “Monetizzazione del debito pubblico e vincolo di bilancio“, secondo la letteratura economica mainstream i presunti effetti inflazionistici dovuti agli acquisti di titoli di Stato da parte della BC, vuoi nel mercato primario o secondario, rappresentano la legittimazione teorica per imporre stringenti vincoli di bilancio alla spesa governativa. Questo modo di intendere la relazione tra gli acquisti di titoli da parte della BC e l’inflazione è stata sempre sostenuta dall’Osservatorio, eppure, in questo articolo, gli autori si sono limitati a ridurre il divieto di monetizzazione a “motivazione principalmente simbolica”. Avranno forse compreso che la crescita degli aggregati monetari, causata proprio dalla monetizzazione, alias Quantitative Easing, non ha per nulla consentito il ritorno dell’inflazione al tasso obiettivo? Se così fosse, e cioè se si rifiutasse la relazione monetizzazione-inflazione, verrebbe allora a cadere la motivazione teorica oggi in voga per la quale gli Stati non debbano fare spesa in deficit e, pertanto, i vincoli di bilancio governativi andrebbero completamente ripensati.
In conclusione, dopo il sostegno di Mario Draghi alla necessità di aumentare il debito pubblico, attualmente sembra di assistere a un riposizionamento teorico degli economisti tradizionali su diverse e decisive questioni. Con il Covid è infatti sorto un dibattito economico che era completamente inimmaginabile fino al giorno prima dell’emergenza, e articoli come quello dell’Osservatorio sono la manifestazione del fatto che il castello costruito dal mainstream è a un passo dal crollo.
P.S.: Per saperne di più su Banca centrale e spread…