Una conversazione con Bill Mitchell
Nel 1994 il professor Bill Mitchell ricevette una chiamata dal proprietario di un hedge fund negli Stati Uniti. Questa persona gli disse che la sua strategia di investimenti sarebbe fallita se fosse stata basata sui ragionamenti macroeconomici convenzionali riguardo alla moneta, ragionamenti a cui anche Mitchell si opponeva.
Potevano trovarsi per parlarne?
Quella telefonata, insieme a precedenti scambi via internet, giocò un ruolo importante nella creazione del corpus della Teoria della Moneta Moderna (MMT).
«Ricevetti una telefonata da un Americano che mi disse di essere a Sydney e di volermi parlare. Era Warren Mosler». Dice Mitchell a pranzo vicino al suo attuale luogo di lavoro, l’Università di Newcastle, dove è Preside della Facoltà di Economia e Direttore del Centre of Full Employment and Equity, sfrontatamente abbreviato come CofFEE.
«Così ci incontrammo e iniziammo a parlare di queste idee. Io ero un accademico e affrontai la questione a partire dai principi fondamentali, invece Warren li affrontò da un punto di vista operativo».
Mosler aveva fondato la Illinois Income Investors nel 1982 e con la sua impresa aveva realizzato alcuni scambi commerciali che sembravano in linea con i principi della MMT.
Un esempio ne è l’operazione che fece nei primi anni ’90 del ‘900 in cui assunse una posizione contraria alle previsioni comuni sul default che lo Stato Italiano avrebbe dichiarato sui titoli di Stato. Correttamente predisse che questo non sarebbe stato possibile perché l’Italia emetteva ancora una valuta propria: la lira.
Questa operazione fa riferimento al cuore della MMT, la quale sostiene che uno Stato che emette valuta propria non può non essere in grado di pagare il proprio debito, anzi, può anche emettere un ammontare di debito maggiore di quello che è generalmente considerato possibile. Inoltre il debito non finanzia la spesa in deficit: è esattamente il contrario.
«Warren mi disse: “Se avessi effettuato le operazioni nel mercato basandomi sul mainstream economico neoclassico non avrei mai fatto soldi”. Questo è il modo in cui è iniziata la nostra conversazione», ricorda Mitchell.
Perché gli Stati non possono risparmiare
Essenzialmente la MMT argomenta che uno Stato che emette valuta propria gestisce il suo bilancio in modo molto differente rispetto alle imprese e alle famiglie.
Da questo punto di vista non ha alcun senso dire che uno Stato che emette valuta propria sta risparmiando quando realizza surplus. Non esistono conti di risparmio su cui lo Stato può accumulare il budget non speso e accantonarlo per i tempi di vacche magre.
Invece la MMT sostiene che deficit e surplus realizzati dallo Stato hanno un impatto diretto sul livello di ricchezza del settore privato. Ogni surplus drena ricchezza dal settore privato, mentre i deficit determinano disponibilità di moneta che entrano nelle tasche del settore privato.
Ma, aspetta un momento, la spesa pubblica non è finanziata dalle tasse?
Non è così per la MMT. Le tasse non finanziano nulla. Le tasse sono utilizzate per riallocare risorse dal settore privato a quello pubblico, una differenza sottile ma importante, dice Mitchell.
«A cosa servono le tasse? Le tasse creano quello che chiamo “margine di utilizzo di risorse reali”, entro il quale lo Stato può spendere o meno senza causare inflazione» dice.
«In un’economia moderna lo Stato non ha risorse; siamo noi ad averne. Noi possediamo il lavoro e il capitale. Come se li procura lo Stato per realizzare i suoi programmi e il suo mandato? Bene, deve privarcene per poter utilizzare quelle risorse in qualche modo».
«Si pensi a come lo fa: attraverso la tassazione. Non ha bisogno di tasse per spendere; c’è bisogno di tassare per creare un margine entro cui poter spendere senza causare inflazione. Questa è una differenza fondamentale rispetto a quello che pensano le persone».
La MMT sostiene che la spesa pubblica è limitata dalla disponibilità delle risorse reali disponibili nell’economia, non dall’ammontare del gettito fiscale e questo significa che uno Stato spesso può spendere più di quanto sia comunemente considerato prudente. L’inflazione non è tanto causata dalla spesa pubblica ma piuttosto da shock di offerta e domanda.
«Sicuramente l’inflazione è un problema, ma è una paura esasperata», dice Mitchell.
«Gli Stati devono essere sicuri di gestire la loro spesa per non causare inflazione, ma questo non vuol dire che si debba ricorrere all’austerità».
«Un esempio classico è l’iperinflazione nello Zimbabwe. Le persone dicono: “Beh, è successo perché [l’allora presidente Robert] Mugabe ricorse a una spesa frenetica”».
«Quello che la maggior parte delle persone non capisce è che l’iperinflazione non ebbe nulla a che vedere con i deficit fiscali. Se si conoscesse la storia di quell’epoca, si saprebbe che Mugabe fu a capo di coloro che si battevano per la libertà contro le forze britanniche, contro la Rhodesia, e liberò quello che è oggi il moderno Zimbabwe».
«Si sa che durante il periodo coloniale le leggi fondiarie erano estremamente inique e con incredibili disparità. E abbastanza ragionevolmente Mugabe decise di ricompensare coloro che si battevano per la libertà ma, in modo piuttosto ingiustificato, decise di ricompensarli nel modo sbagliato: espropriando le terre delle fattorie dei bianchi e distribuendole ai suoi soldati».
«Lo Zimbabwe allora era la riserva del cibo d’Africa; le sue coltivazioni erano incredibilmente efficienti e produttive. Quello che successe in un brevissimo lasso di tempo fu che la produzione agricola crollò del 60% e in una società agricola questo è devastante».
«Per evitare una carestia la banca centrale dello Zimbabwe impose controlli sul cambio e razionò i guadagni in conto capitale su valute estere per acquistare cibo perché le scorte alimentari erano diminuite. Ciò privò i produttori del capitale minimo indispensabile a lavorare».
«Così ci furono molti eventi che causarono una crisi dell’offerta. Non sarebbe cambiato nulla se il Governo avesse realizzato un surplus, ci sarebbe comunque stata iperinflazione».
Salire sulle spalle dei giganti
La MMT non è stata creata da zero ma costruita sul lavoro di vari economisti a partire principalmente dal lavoro dell’economista britannico Abba Lerner e dal suo concetto di “finanza funzionale”, fino ad arrivare a John Maynard Keynes.
«C’è molto poco [nella MMT] che è originale nel senso di pura originalità. Si tratta più di aggiungere idee a qualcosa che già esiste» dice Mitchell.
«Uno dei principali mattoni viene da Abba Lerner, che nel 1940 creò il concetto di finanza funzionale che entrò a far parte del nuovo modo di pensare al ruolo dello Stato dopo la Grande Depressione».
«La questione che la finanza funzionale affrontò era relativa a quella che a quei tempi era chiamata “finanza sana” e che noi oggi definiremmo neo-liberismo: gli Stati devono pareggiare i propri bilanci o realizzare surplus perché se non lo fanno accadono cose brutte e il debito pubblico è un peso per i propri nipoti».
«Quello che disse Abba Lerner è che dovremmo in realtà concepire lo Stato in termini funzionali, in base a quello che fa. Non dovremmo valutare la posizione fiscale di per sé, che sia in deficit del 2% o in surplus del 2%, ma dovremmo considerare cosa vorremmo che lo Stato facesse per nostro conto e considerare la sua posizione fiscale relativamente alla funzione pubblica che adempie».
«Non ha senso realizzare un surplus del 2% se si ha una disoccupazione del 10%. La finanza sana sosterrebbe che questo è positivo, ma la finanza funzionale direbbe che è un disastro perché quello che vogliamo davvero che lo Stato faccia è che assicuri che non ci sia una disoccupazione del 10%. La posizione fiscale deve essere quella che serve a raggiungere tale obiettivo funzionale».
«La finanza funzionale riconobbe che gli Stati non hanno in realtà bisogno di finanziare la propria spesa nel modo in cui pensiamo che lo facciano, nel modo in cui la finanza sana dice di farlo: vale a dire tassando o prendendo in prestito».
Riconoscimento
Mitchell, insieme a Mosler e a molti altri economisti, contribuisce a strutturare la MMT dal punto di vista concettuale dai primi anni ’90 del ‘900 ed è in un certo qual modo gratificato dal constatare che essa stia finalmente ricevendo le attenzioni di Wall Street e degli economisti mainstream.
«Sta finalmente iniziando a ricevere attenzione perché ora comincia ad entrare nella politica» dice.
«È solo da quando Alexandria Ocasio-Cortez [la rappresentante degli Stati Uniti per il 14° distretto congressuale di New York, anche conosciuta con l’acronimo AOC] ha abbracciato la MMT. Quello ha dato una spinta che però si stava costruendo da anni».
«Adesso abbiamo un libro di testo e un programma che sto insegnando all’Università di Helsinki».
È grato per l’attenzione che ha ricevuto dai politici degli Stati Uniti e supporta il Green New Deal, una serie di progetti infrastrutturali proposti da Ocasio-Cortez e da altri per aiutare l’economia nella transizione verso un modello di economia a bassa emissione di anidride carbonica.
«Il Green New Deal sembra un sogno ma se si ripensa agli anni ’50, dopo la seconda guerra mondiale, l’Australia era una nazione piuttosto povera e il settore pubblico era enorme» dice.
«Stavamo costruendo un Paese forti dello Stato: le strade, i sistemi di telecomunicazione, il sistema dei trasporti, le scuole e gli ospedali. Ci furono investimenti pubblici massicci che procedevano come parte di quella fase di costruzione di una nazione».
«Guardo al Green New Deal come un altro esempio di costruzione di un Paese. Abbiamo raggiunto una fase nella nostra evoluzione che necessita di una nuova grande iniezione di investimenti pubblici nelle infrastrutture. Sia chiaro, non è un progetto della MMT, credo che debba essere di tutti, ma quello che la conoscenza della MMT ti dice su di esso è che lo Stato ha le possibilità finanziarie di effettuare la spesa per le infrastrutture».
«E poi si sentono i critici dire: “La MMT ti dice che puoi avere tutto gratuitamente”. Beh no, non puoi. Il Green New Deal comporterebbe una massiccia trasformazione nell’utilizzo di risorse reali nelle nostre economie e dovremo privare di risorse chi attualmente le utilizza, come chi usa il carbone, chi fabbrica automobili a combustione interna, i coltivatori che utilizzano la deforestazione che è insostenibile e i fosfati».
«Ci dovrà essere un massiccio cambio di rotta di risorse. Non è una cosa facile da fare. Il Governo sarà in grado di finanziarlo, questo non è un problema. Ma sarà una trasformazione sociale, questa è la sfida del Green New Deal. Si tratterà di un processo che dovrà essere gestito molto bene, di un processo molto delicato a livello politico».
Indica Newcastle, dove si sta svolgendo la nostra conversazione, come un esempio lampante delle difficoltà che il Green New Deal sta incontrando.
«Sei a mezzo chilometro dal più grande esportatore di carbone al mondo: Newcastle Port. Bene, questa regione dovrà smettere di produrre carbone. Come si fa a fare in modo che accada? Questo è il Green New Deal» dice.
«Non è che lo Stato non possa pagare. Si tratta di capire quali strumenti saranno adottati per interrompere la produzione di carbone. Verrà regolata? Verrà introdotta una tassa sull’anidride carbonica? Queste sono tutte domande alle quali va data una risposta».
Ho chiesto per anni che questa regione, la Hunter, diventasse un centro nevralgico per la produzione di energia e tecnologie rinnovabili. Questa è una regione commerciale, basata sulle competenze, ma molti dei lavoratori al momento non stanno facendo niente ora che la BHP Billiton ha chiuso [il suo impianto di produzione dell’acciaio].
«Il Green New Deal è un progetto di 50 anni, o comunque un progetto molto lungo. Avrà bisogno di strumenti elaborati di transizione per far sì che i lavoratori di questa regione abbiano opportunità. Ma questo non succederà in un solo giorno».
Originale di Wouter Klijn pubblicato il 19 giugno 2019
Traduzione a cura di Luca Giancristofaro