Approfondimento

Brexit: cosa bolle in pentola?

Brexit: cosa bolle in pentola?

Il 23 giugno ci sarà il fatidico “sì”, che nel caso del Regno Unito con l’Unione Europea più che un matrimonio potrebbe sancire un definitivo divorzio.

David Cameron, primo ministro del Regno Unito, aveva promesso ai suoi elettori in occasione delle elezioni dello scorso maggio di indire un referendum sul tema uscita/permanenza nell’Unione Europea. La data del referendum è stata fissata e questo nonostante in questi giorni il governo britannico abbia ottenuto importanti concessioni dal vertice europeo.

Quali sono le ragioni del referendum?

Quello che maggiormente preoccupa l’esecutivo è l’ondata di immigrati provenienti dagli altri Paesi membri dell’UE: dal marzo 2014 a marzo 2015 ci contano circa 300˙000 unità in più. Quello che preme maggiormente è quindi una riforma della libera circolazione in UE.

Il ministro dell’Interno Theresa May ha dichiarato più volte che l’attuale livello dell’immigrazione non è sostenibile perché carica troppa pressione sulle infrastrutture, come case e trasporti, e i servizi pubblici, come scuole ed ospedali, aggrava la disoccupazione degli inglesi (in Italia diremmo “ci rubano il lavoro!”) e spinge i salari verso il basso (perché gli immigrati si accontentano di remunerazioni inferiori). L’effetto economico complessivo sarebbe vicino allo zero. Queste preoccupazioni verrebbero smentite dai dati ufficiali come riporta in questo articolo il “The Guardian”.

Ma più che il problema degli immigrati, in realtà gli inglesi accettano mal volentieri che siano terzi a prendere le decisioni in casa loro. Allo stesso modo mal digeriscono il primato del diritto europeo su quello nazionale.

E così il Premier, lo scorso novembre, ha inviato una lettera al Presidente del Consiglio europeo, Donald Dusk, dove auspicava alcuni cambiamenti riassunti in quattro punti:

  1. Maggiori poteri ai parlamenti nazionali. Il governo nazionale dovrebbe avere facoltà di apporre un veto sulle decisione assunte dalle istituzioni europee, e quindi poter decidere di volta in volta se accettare o meno tali decisioni. Questo equivale a richiamarsi fuori dalla clausola dell’Unione sempre più stretta.
  2. Ridurre l’eccessiva burocrazia dell’UE al fine di agevolare una maggiore competitività.
  3. Limitare l’accesso dei migranti dei paesi membri dell’UE nel Regno Unito, impedendo loro di poter usufruire dei servizi connessi al welfare a meno di non aver trascorso almeno quattro anni sul territorio britannico.
  4. Riconoscimento della sterlina britannica. L’euro non sarebbe più l’unica valuta dell’UE. Cameron ha chiesto la garanzia che il Regno Unito non dovrà contribuire al salvataggio della zona euro e non dovrà subire nuove regole imposte dai Paesi dell’UE.

In realtà quello che ha ottenuto Cameron è molto di più di quanto auspicato in questa lettera.

Come richiesto al primo punto della lettera, la GB verrà esentata dall’aderire ad un’ “Unione sempre più stretta” (ever closer Union), il principio su cui si fonda l’Europa sin dal trattato di Roma del 1957; non farà quindi mai parte di un esercito europeo, né parteciperà ai salvataggi finanziari, all’euro e ai confini aperti, ma godrà della più assoluta autonomia. Persino la supervisione delle banche inglesi sarà di competenza nazionale. Inoltre, mentre Bruxelles non potrà condizionare Londra, potrà avvenire il contrario, infatti il governo inglese potrà intervenire su decisioni di loro interesse e prendere iniziative.

Per quanto riguarda gli immigrati, è stata prevista la sospensione del diritto al welfare britannico (sanità e sussidio di disoccupazione) per tutti i lavoratori comunitari per 7 anni (non per 4, come si era chiesto inizialmente), rinnovabili poi per 3 anni; gli assegni famigliari erogati in altri Paesi membri dell’Unione verranno indicizzati in base al tasso d’inflazione del Paese che li riceve.

I punti su cui Cameron ha ottenuto il via libera da Bruxelles potranno essere operativi solo nell’eventualità della vittoria dell’opzione europeista. In caso contrario l’accordo cesserà di esistere e il governo britannico potrà operare ancora più liberamente.

Cameron ha ribadito la sua volontà di restare in Unione prospettando scenari apocalittici nel caso di uscita, e ha dichiarato che alla luce di quanto ottenuto con questo accordo cercherà di fare pressioni sull’opinione pubblica affinché si voti per salvare questo matrimonio che in molti pensano non fosse da farsi.

Quali sono le conseguenze di questo accordo e del referendum?

Nonostante la Gran Bretagna sia uno dei Paesi meno condizionati dall’Unione Europea e abbia conservato la sovranità monetaria, è quello che si mostra più insofferente per l’ingerenza di Bruxelles.

Il problema degli immigrati comunitari in un Paese che gode della sovranità monetaria non si pone: il governo inglese può emettere tutta la valuta di cui necessita il settore privato, senza dover togliere nulla a nessuno. Come abbiamo spiegato più volte, la moneta è un’unità di conto non è un bene reale. E le tasse non finanziano la spesa pubblica, dal momento che vengono incassate in un momento successivo: prima lo Stato spende e solo dopo incassa; se prima lo Stato non spende, i suoi cittadini non possono pagare i tributi, perché i soldi necessari a pagare i tributi gli vengono erogati dallo Stato attraverso la spesa pubblica.

Il vero problema economico del Regno Unito (se di problema si può parlare, visti i livelli di disoccupazione “ridicoli” rispetto ad altri Paesi, come ad esempio l’Italia) è la progressiva riduzione della spesa in deficit (la differenza tra quanto il Governo spende al netto degli interessi sul debito, per mezzo della spesa pubblica, e quanto incassa, attraverso i tributi). E più si decide di ridurre la spesa in deficit e più si decide di aumentare la disoccupazione, che trasforma la forza lavoro degli immigrati, che rappresentano una risorsa, in un problema. La disoccupazione, infatti, non è un fenomeno naturale ma è una precisa scelta politica.

Malgrado a differenza dei Paesi aderenti alla zona euro, non debbano chiedere i soldi ai mercati finanziari e non abbiano il vincolo del 3% imposto col trattato di Maastricht (infatti hanno superato la crisi economica del 2008 grazie a un deficit pari al 9,4% nel 2009 e la sterlina è arrivata a svalutarsi del 40% rispetto al dollaro, senza che la popolazione si sia accorta di nulla e senza che ci sia stato alcun “assalto” alle banche o un’iperinflazione alla “Weimar”), si ostinano a perseguire politiche neoliberiste di tagli alla spesa pubblica e aumento della pressione fiscale. E come tutti i governi che giustificano le politiche di austerità come necessarie, gli inglesi non sono da meno: cercano di convincere l’opinione pubblica che il problema siano gli immigrati. Tutto mondo è paese.

Quello che spaventa invece i piani alti di Eurolandia è l’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’UE che potrebbe invogliare altri Paesi ad uscire, e questo fa tremare i mercati di capitali privati che ormai da anni fanno affari d’oro con i Paesi dell’eurozona.

Di certo questo accordo potrebbe invogliare altri Paesi a seguire le orme della GB per riappropriarsi delle sovranità cedute a Bruxelles, a meno che non si accetti che in questa Europa esistano figli (la GB) e figliastri (vedi la Grecia con Tsipras).

Il referendum è comunque una svolta decisiva nello scenario europeo, a prescindere che il 23 giugno si decida che il matrimonio venga salvato o no, perché è comunque il matrimonio di due coniugi ormai separati in casa.


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