Quando si parla dell’elevata disoccupazione, specie giovanile (ancora oltre il 40%), spesso sentiamo pronunciare la seguente frase: “non c’è lavoro“. Tale affermazione è empiricamente errata.
Vediamo il perché.
Dalle cronache quotidiane apprendiamo che: una parte del territorio nazionale andrebbe riassettato dal punto di vista idrogeologico, un’altra parte andrebbe bonificato, le reti idriche e fognarie di molti Comuni dovrebbero essere letteralmente rifatte, l’edilizia scolastica e ospedaliera necessiterebbe di molti interventi. Ciò a titolo non esaustivo ma meramente esemplificativo. Tutto questo non è forse lavoro?
In Italia ci sono moltissime imprese specializzate, progettisti competenti e manodopera qualificata che potrebbero realizzare le citate ed altre opere ma il lavoro, che pure esiste, non viene loro assegnato. A mancare, invero, è il denaro o, per meglio dire, la volontà politica di spenderlo. In Eurozona gli Stati hanno politicamente stabilito di imporsi una disciplina di bilancio talmente rigorosa da sacrificare crescita, occupazione e stato sociale.
Affermare che non ci sia lavoro è, pertanto, sbagliato. Ciò che manca, in realtà, è la volontà politica di generare nuova occupazione attraverso una sana e necessaria spesa in deficit.
A nulla vale la propaganda governativa in atto che, sulla scia dei recenti dati Istat, millanta successi sul fronte del contrasto al fenomeno della disoccupazione.
I dati riferiti al secondo trimestre del 2015 mostrano un miglioramento di uno striminzitissimo 0,1%, peraltro come vedremo solo apparente, rispetto al medesimo periodo dell’anno precedente. Il tasso di disoccupazione generale, infatti, scende dal 12,2% al 12,1% ma, sempre secondo l’Istat, il numero dei disoccupati rimane invariato, a 3 milioni 101 mila unità, a causa dell’aumento degli inattivi e della conseguente contrazione della forza lavoro. In altre parole a giugno 2015 non c’è un disoccupato in meno rispetto a Giugno 2014.
Riserviamoci altresì di monitorare il dato sul salario medio e le trasformazioni dei rapporti di lavoro da full a part time poiché non vorremmo che il Governo facesse passare come un successo qualcosa che invece acclarerebbe un peggioramento della condizione media dei lavoratori.