Approfondimento

I numeri nascosti nel DEF 2018: la finta inversione di rotta

I numeri nascosti nel DEF 2018: la finta inversione di rotta

Il braccio di ferro tra Commissione europea e Governo rende ancora più evidente l’orizzonte a cui ci vogliono ancorare i Trattati europei: l’austerità permanente. La direzione in cui purtroppo stiamo camminando ci obbliga a esaminare nel dettaglio ciò che è dichiarato come un’inversione di rotta da questa direzione, ma in realtà non lo è: la NADEF 2018, la Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza presentata dal Governo alle Camere lo scorso 4 ottobre.

Il dato più importante è lo scostamento del deficit di 1,6 punti percentuali, che fa salire il deficit al 2,4% del Pil, rispetto allo 0,8% previsto nel programma di stabilità.

È un’inversione di rotta?

Prima di procedere all’analisi del documento, ricordiamo che una riduzione del deficit comporta inevitabilmente una riduzione del risparmio dei cittadini e ha dunque conseguenze negative sull’economia dell’intero Paese. La spesa in deficit dello Stato rappresenta il risparmio netto del settore privato (formato da famiglie e imprese) ed è quello che resta ai cittadini al netto dei tributi versati. La disoccupazione è la diretta conseguenza della riduzione della spesa in deficit da parte dello Stato, e nessuna nazione al mondo è uscita da una crisi finanziaria o da una recessione economica senza aumentare il deficit.

Il 2,4% di spesa in deficit presentato dal Governo rappresenta di sicuro un lieve aumento rispetto a quanto previsto dal DEF pubblicato nel mese di aprile dal Governo Gentiloni, ma è comunque un dato in linea con il Trattato di Maastricht. Il 2,4% non può rappresentare il volano della crescita e non può ridurre la disoccupazione involontaria. Warren Mosler ha stimato una spesa in deficit dell’8% in rapporto al Pil come spesa minima per rilanciare l’economia italiana. Il 3% previsto dal Trattato di Maastricht è un numero arbitrario, privo di fondamento scientifico, volto a mantenere tassi di disoccupazione elevati al fine di comprimere i salari reali.

Il Reddito di Cittadinanza: è una misura a favore delle fasce deboli?

La seconda novità riguarda l’introduzione del Reddito di Cittadinanza, una misura volta a contrastare l’aumento della povertà. Solo apparentemente è una misura a favore delle fasce più deboli, per almeno 3 ragioni:

  1. Un sussidio non può sostituire il lavoro. Il lavoro dà dignità all’individuo e gli permette di rendersi utile per la comunità, contribuendo alla crescita della produzione nazionale.
    Se la disoccupazione è causata da un deficit insufficiente a sostenere l’occupazione, l’unica soluzione possibile è aumentare la spesa in deficit e finanziare Programmi di Lavoro Transitorio in tutti quei settori in cui il privato non ha interesse a investire (le bonifiche, le ricostruzioni in seguito a calamità naturali, i servizi alla persona e così via), che innescherebbero un circolo virtuoso: aumenterebbe la domanda di beni e servizi; le imprese, essendo costrette ad aumentare la produzione, si ritroverebbero ad assumere più personale, attingendo anche dai Piani di Lavoro Transitorio dello Stato, e l’economia uscirebbe dalla recessione in cui è intrappolata da anni.
  2. Il sussidio potrebbe avere effetti inflattivi sull’economia, dal momento che non incide significativamente sull’aumento della produzione nazionale: se la produzione non aumenta, l’unico effetto che si avrà sarà un aumento del livello generale dei prezzi.
  3. Non essendo previsto lo sforamento del tetto del 3% di deficit, il reperimento delle risorse per il RdC va a discapito di altre voci di spesa che dovranno essere tagliate.

Ancora tagli?

Il documento cita tagli pari allo 0,2% del Pil (circa 3,6 miliardi), una stretta sugli interessi passivi delle banche che comporterà maggiori costi per i correntisti, e una mini-sforbiciata alle tax expenditures, ovvero le agevolazioni fiscali che riducono il prelievo per alcuni contribuenti (ad esempio le detrazioni o i crediti d’imposta). Altre risorse una tantum saranno assicurate dalla pace fiscale, che assicura una dilazione dei debiti nei confronti della PA attraverso la rottamazione delle cartelle esattoriali e il condono per debiti fino a 1˙000 euro per cartelle, multe e bollo d’auto; e dall’extra gettito dell’asta 5G.

Non si vuole aumentare la spesa pubblica oltre lo 0,1% del Pil nominale, ovvero il Pil non depurato dall’inflazione. Questa scelta si tradurrà in nuovi tagli in termini reali, se l’inflazione dovesse essere positiva. Infatti, si legge nel DEF che gli aumenti dell’IVA e delle accise vengono solo rinviati al Programma di Stabilità 2019.

Per quanto riguarda la spesa sanitaria non sono previste stime al rialzo significative. Vengono bloccati i tagli previsti dal precedente Governo, mantenendo minimi i Livelli Essenziali di Assistenza al 6,5% nel 2019 (contro il 6,4% previsto dal Governo Gentiloni), rimandando la riduzione al 6,4% nel 2020 e nel 2021. Sono previsti aumenti della spesa sanitaria abbastanza contenuti, nella misura dello 0,8% nel 2019, dell’1,9% nel 2020 e del 2% nel 2021, ben al di sotto della stima di crescita del Pil nominale, rispettivamente del 3,1%, 3,5% e 3,1%. Verranno inoltre poste in essere nuove misure di accertamento sanitario per il riconoscimento della condizione di disabilità da parte delle commissioni medico-legali, col rischio che possano essere revocati i precedenti accertamenti.

Nella nota si sottolinea l’impegno del Governo a rilanciare gli investimenti pubblici, prevedendo addirittura una task force, ovvero un gruppo di esperti al fine di valutare, attivare e monitorare gli investimenti. L’Italia ha bisogno di investimenti pubblici per rilanciare l’economia, ma, senza aumenti reali della spesa in deficit, restano falsi intenti, peraltro smentiti dai numeri: si prevede di destinarvi appena l’ 1,9% delle risorse. Una cifra irrisoria, se si pensa che prima del 2011 veniva destinato il 3%. Inoltre, si legge a chiare lettere che la rimodulazione della spesa pubblica in favore della spesa in conto capitale, quindi degli investimenti, deve tenere conto di una sistematica spending review, ovvero di tagli alla spesa pubblica.

In questo quadro assume particolare rilievo un rinnovato impegno del Governo a promuovere la liberalizzazione nei settori ancora caratterizzati da rendite monopolistiche e da ostacoli alla concorrenza, con risultati benefici sul fronte dei prezzi, dell’efficienza e degli incentivi all’innovazione.

Nessuna nazionalizzazione dunque. Si continua sulla strada delle privatizzazioni. Si prevedono entrate da dismissioni pari allo 0,3% del Pil nel periodo 2018-2020. Per il 2018, i proventi derivanti dalle vendite di immobili pubblici dovrebbero ammontare a 600 milioni, di cui 50 milioni per le vendite di immobili delle Amministrazioni centrali, 380 per le vendite effettuate dalle Amministrazioni locali, e 170 milioni per le vendite degli Enti di previdenza.

Le dismissioni immobiliari sono stimate per il 2019 e per il 2020 rispettivamente pari a 640 milioni e 600 milioni.

Previsioni al rialzo dell’indebitamento netto al 2,4% nel 2019, al 2, 1% nel 2020 e all’1,8% nel 2021 forniranno maggiore stimolo all’attività economica e con un più alto livello del Pil si contribuirà a ridurre il rapporto Debito/Pil nel corso del triennio.

Si riconosce una verità che noi affermiamo da tempo: affinché si riduca il rapporto Debito/Pil è necessario intervenire sul denominatore, attraverso l’aumento della spesa in deficit che favorisce l’aumento del Pil. Purtroppo, nonostante lo si comprenda le azioni intraprese vanno nella direzione opposta.

Il Governo prevede la riduzione dell’indebitamento strutturale, quindi della spesa in deficit, dal 2022 in avanti. E « laddove il Pil reale e l’occupazione oltrepassassero i livelli pre-crisi prima del 2021 i tempi di questa riduzione verrebbero accelerati ». Tradotto, significa che la disoccupazione non deve scendere sotto i livelli pre-crisi (6-7%) e il Pil non deve crescere come in passato, altrimenti si interverrà prima con altre politiche di lacrime e sangue.

Si riconosce che « nel 2018 la crescita economica italiana ha rallentato rispetto al 2017 principalmente per il venir meno del contributo positivo del settore estero che ha favorito la ripresa nel 2017 », grazie quindi alle esportazioni favorite a loro volta dalla compressione dei salari, e che « Il tasso di disoccupazione si è ridotto anche per effetto della riduzione della forza lavoro. », in tanti infatti sono emigrati e continuano a emigrare all’estero.

È prevista l’introduzione della flat tax per le PMI e le partite IVA, con l’intento di ridurre il cuneo fiscale e favorire la crescita dell’occupazione. Non entriamo nel merito della misura, ma resta senza risposta la questione di come si possa stimolare la domanda senza un significativo aumento del deficit che, attraverso un aumento della spesa pubblica, porterebbe alla creazione diretta di occupazione.

L’esecutivo intende inoltre valorizzare il Partenariato pubblico-privato (PPP), modificare il Codice dei Contratti Pubblici e avviare il riordino delle concessioni erariali con l’intento di ottenere maggiori proventi dalla razionalizzazione.

Per le ferrovie regionali si prevede la possibilità di affidare a Rete Ferroviaria Italiana alcuni tratti oggi gestiti dalle Regioni. Rete Ferroviaria Italiana è una S.p.A. partecipata dallo stato e nel mirino delle privatizzazioni.

Sul sistema bancario si intende intervenire attraverso l’introduzione di una nuova normativa relativa alla GACS (Garanzia Cartolarizzazione Sofferenze) verificando la fattibilità tecnica dell’estensione alle cartolarizzazioni dei crediti classificati come inadempienze probabili. Inoltre si completerà la riforma delle banche di credito cooperativo e delle banche popolari, con l’intento di ridurre gli NPL (Non Performing Loans), i cosiddetti crediti a rischio. Sebbene risultino in percentuale largamente inferiore a quella delle banche maggiori. La riforma prevede l’accorpamento delle BCC con alcune banche maggiori, sottoponendole al diretto controllo della BCE. Questo rischia di trasformare le BCC in semplici filiali di S.p.A., minandone non solo l’autonomia ma anche la funzione mutualistica. Un altro aspetto che rischia di chiamare in causa la Corte Costituzionale è il diniego di applicare l’articolo 2437 del C.C., che permetterebbe ai soci di recedere e avere indietro le rispettive quote in caso di modifiche significative all’attività del gruppo e ai diritti dei soci.

Il decreto Milleproroghe varato lo scorso settembre, che prevede l’innalzamento al 60% del capitale sociale di partecipazione delle BCC allo scopo di assicurare il controllo degli istituti di credito cooperativo nella banca capogruppo, rischia di essere vanificato perché il controllo da parte della BCE potrebbe, nel caso in cui emergessero deficienze patrimoniali, imporre la ricapitalizzazione, dando così spazio al capitale straniero che diluirebbe immediatamente la soglia di sicurezza del 60%.

Va sottolineato, inoltre, che in altri Paesi dell’UE le banche cooperative sono state salvaguardate e restano sotto il controllo della banca centrale nazionale.

Altri provvedimenti riguardano la realizzazione del Sistema Informativo Unitario per facilitare la ricollocazione dei disoccupati e la riduzione del contratto a tempo determinato da 36 a 12 mesi. Sono previste diverse misure volte a contenere l’abuso della precarietà (sanzioni per la violazione della durata del contratto, abbassamento del numero di proroghe, contributi in caso di trasformazione dei contratti da tempo determinato a tempo indeterminato, ecc.) che però difficilmente aumenteranno i livelli occupazionali se non accompagnate da misure che creano occupazione: aumento del deficit e PLT.

Nel capitolo sulle misure a sostegno della famiglia e della disabilità si parla di integrazione e di partnership tra la sfera pubblica e il mondo dell’associazionismo no profit delle imprese sociali, di favorire l’occupazione femminile intervenendo sui congedi parentali e investendo su nuove forme di promozione nei settori pubblico e privato.

Altre misure riguardano la tutela dell’ambiente, gli incentivi all’agricoltura, la riforma costituzionale e la razionalizzazione delle spese militari.

Nelle azioni strategiche del cronoprogramma si ribadisce l’intento di ridurre il debito e proseguire nella riduzione del deficit strutturale, nella revisione della spesa pubblica e nel rafforzamento della strategia di riduzione del debito attraverso privatizzazioni, dismissioni del patrimonio immobiliare e riforma delle concessioni. In una parola, l’unica che sintetizza l’intero documento: austerità.


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