Sul mensile Economia Magazine di giugno è stata pubblicata la video intervista che Ivan Invernizzi ha fatto a Warren Mosler sui temi dell’attualità. In questo articolo la riproponiamo integralmente.
Personalità di successo del mondo bancario e finanziario, con esperienze imprenditoriali innovative anche nel settore automobilistico e navale, Mosler si è distinto per aver elaborato una teoria economica che ha animato il dibattito accademico ed in diversi paesi anche quello politico-intellettuale.
I recenti fenomeni di portata storica che si sono susseguiti negli ultimi due anni, il covid ed il conflitto in Ucraina, ci hanno portato a chiederci come un economista eterodosso, brillante ed eclettico potesse interpretare lo scenario economico attuale. Per questo abbiamo chiesto a Warren Mosler di fare una video call con noi.
Sig. Mosler, quali sono state le più rilevanti implicazioni della pandemia sull’economia mondiale secondo lei?
«La pandemia ha portato ad uno shock massiccio sull’offerta di forza lavoro: di colpo il 90% della popolazione non ha più potuto andare a lavorare e produrre come prima. Fortunatamente si è trattato solo di quelli che vengono chiamati “lavori non essenziali”. Abbiamo continuato ad avere cibo ed energia dato che le persone impiegate in quei settori solitamente potevano continuare a lavorare. Ma ai lavoratori di tutti i settori considerati non essenziali, in un periodo iniziale, non gli è stato permesso lavorare: le persone sono state pagate per stare a casa come se ricevessero un sussidio di disoccupazione per far la loro parte nel non diffondere la malattia. La cosa interessante è che, eliminando questi settori non essenziali, le emissioni si sono ridotte forse del 50% nel periodo iniziale (in alcune città italiane si è arrivati all’80%, fonte RaiNews): cambiamenti che si sono potuti rilevare anche con le osservazioni della Terra dallo spazio! Quindi abbiamo fatto in due settimane molto più di quanto gran parte dei movimenti ambientalisti speravano di fare in anni: avevamo già vinto la guerra al riscaldamento globale e alle emissioni nocive. Poi abbiamo rinunciato a questo risultato e quando abbiamo riportato l’economia a livelli normali nessuno ha richiesto di fare qualcosa per evitare di riportare anche le emissioni ai livelli pre-covid. Dopo due anni siamo ritornati a livelli di attività economica pre-covid e stiamo guidando tanto quanto lo facevamo prima, il prezzo della benzina è salito ed ora il solo problema di cui si parla è che il suo prezzo è troppo alto. Devo quindi dire che in realtà non esiste una vera base elettorale in favore dell’ambiente, altrimenti tutto questo non sarebbe successo. Sono stati riattivati tutti i settori non essenziali, sottolineo “non essenziali”, senza pensare all’ambiente: evidentemente l’ambiente non è considerato essenziale. Ce l’avevamo fatta, eravamo lì, ma abbiamo deciso che non valeva la pena di fare qualcosa per evitare di avere persone che ricominciassero a girare in auto come prima. E penso che questo valga sia per gli USA che per l’Europa. Questo è quello che ho appreso dalla pandemia in prospettiva storica».
E cosa mi dice invece sui problemi dal lato della produzione, dell’offerta di beni e servizi alla catena di approvvigionamento?
«Penso che i problemi di scarsità si siano risolti, i magazzini ora sono tornati a riempirsi a livelli normali. Ora tutto è tornato ad essere accessibile, anche se non proprio al 100%, ma ad ogni modo ora è tutto ok. Certo, ci sono questioni legate al trasferimento delle merci, dazi e linee di approvvigionamento che sono state ripensate con il covid e che hanno reso i prodotti più cari. Per “più cari” intendo che a livello macro, in un modo o nell’altro, è ora necessario più lavoro per fornire le merci che consumiamo. Che sia per trasporto, ispezioni o quarantene, ci sono molte ore di forza lavoro che devono essere aggiunte».
Ma quindi interpreta così l’aumento nel livello dei prezzi?
«L’aumento nel livello dei prezzi è legato in larga parte all’aumento del prezzo del petrolio, che è completamente nelle mani di Arabia Saudita e Russia, operanti di comune accordo. Il mondo ha infatti una domanda giornaliera di 100 milioni di barili di petrolio ed è capace, escludendo l’Arabia Saudita, di produrne solo 90. L’Arabia Saudita è quindi il monopolista marginale che fissa un prezzo che il mondo è obbligato a pagargli (ed il prezzo più alto che gli altri produttori riescono ad ottenere è legato al prezzo fissato dai sauditi). Ultimamente hanno aumentato i prezzi di continuo e non so quale sia il loro obiettivo. Chiaramente il petrolio ed i suoi derivati entrano nei processi produttivi di praticamente qualsiasi cosa; dunque un aumento del prezzo del petrolio si traduce in un aumento generalizzato dei prezzi. Nel 2007 e 2008 i sauditi si sono spinti ad aumentare il prezzo al punto tale da far saltare un gran numero di aziende produttrici “low cost”. Sono solo un paio di persone che prendono queste decisioni: il re e il ministro del petrolio saudita. Ma ora anche Putin si è seduto al tavolo. Se dovessero decidere di continuare ad aumentare il prezzo del petrolio il livello dei prezzi continuerà ad alzarsi, le banche centrali continueranno ad aumentare i tassi di interesse e ciò non potrà che peggiorare le cose (nei suoi lavori Mosler spiega come il tasso di interesse costituisca una componente strutturale dell’inflazione). La guerra in Ucraina crea ulteriori ostacoli economici ed un aumento dei prezzi che contribuiscono a dare a Putin e ai sauditi incentivi ad aumentare i prezzi in chiave anti occidentale. Hanno colpito le forniture agricole, di gas e petrolio, il cui prezzo potrebbe continuare ad aumentare fino a “rompere” le nostre economie. Non so quanto lontano andranno, ma ora come ora sembra che stiano vincendo. E se ci pensate, a livello mondiale, le autorità politiche paiono non capire la fonte del problema».
Mi potrebbe spiegare più nel dettaglio come avviene questa cooperazione tra Arabia Saudita e Russia?
«La produzione di Russia e Arabia Saudita sommata ammonta a 15 milioni di barili di petrolio circa. Durante la pandemia hanno concordato di diminuire di 2,5 milioni di barili la loro produzione alla luce della bassa domanda. Oltretutto in quella fase c’era anche il presidente Trump che “minacciava” i sauditi chiedendogli di diminuire la produzione, in quanto cercava di tutelare gli interessi dei petrolieri americani. Al ché i Sauditi hanno detto: “va bene”».
Capisco, ma i sauditi non hanno alcun bisogno di mettersi d’accordo con la Russia per diminuire la produzione.
«Sì, non ne hanno più bisogno ora. Durante la pandemia ne avevano bisogno dato che la domanda di petrolio è calata al punto tale che il mondo avrebbe potuto evitare di rifornirsi da loro e ciò ovviamente gli avrebbe fatto perdere il controllo sul prezzo. Ora però Arabia Saudita e Russia sono alleate. Certo, i sauditi comprano armi dagli Stati Uniti, ma ora hanno supporto militare anche dalla Russia. Ciò vuol dire, tra l’altro, che la Russia ora ha a disposizione qualsiasi sistema d’armi con cui gli USA hanno rifornito in precedenza l’Arabia Saudita. Dopodiché ora il petrolio russo è venduto scontato di 35$ per via dell’embargo, ma il mercato lo tratta come se causasse il cancro al mondo occidentale. Noi occidentali non lo compriamo e intimiamo gli altri a non farlo. Questo porta i russi a scontarlo, anche se in realtà non ce ne sarebbe bisogno: il mondo ha bisogno delle stesse quantità di petrolio e continuerebbe a comprare le stesse quantità dalla Russia, anche senza sconto».
È strana questa collaborazione tra la Russia e l’Arabia Saudita: a metà degli anni 80 uno dei fattori che innescò la crisi dell’URSS è stato proprio che i sauditi diminuirono il prezzo del petrolio, mandando in crisi gli altri esportatori di idrocarburi ed in particolare l’Unione Sovietica…
«Sai… il nemico del mio nemico è mio amico. Agli USA non piace che i sauditi ammazzino i giornalisti. Alla Russia questo non interessa perché hanno fatto la stessa cosa. Agli USA invece, almeno all’opinione pubblica americana, ciò non piace e non piace neanche ciò che l’Arabia Saudita ha fatto in Yemen. Alla Russia invece tutto ciò non interessa».
Ma scusi, gli USA non hanno fatto nulla per impedire la guerra in Yemen.
«No, penso che gli USA li abbiano anche aiutati un po’, ma all’opinione pubblica americana ed al congresso non piace quello che è successo e sta succedendo in Yemen e penso che neanche Biden ne sia contento: c’è una certa preoccupazione per le organizzazioni terroristiche che potrebbero emergere in Yemen e rappresentare qualche forma di pericolo anche per gli USA».
Ma l’Arabia Saudita cosa può ottenere da questo aumento dei prezzi?
«Ottengono più denaro. Ciò gli consente di supportare il loro standard di vita: la famiglia reale conta oltre 15000 membri e a tutti piace girare con i loro jet privati. Hanno cercato di diversificare la loro economia, ma senza grandi idee oltre a continuare ad esportare petrolio ed importare tutto quello di cui hanno bisogno. Oltretutto sanno che nel mondo le spinte ecologiste hanno fatto diminuire gli investimenti in impianti di produzione di petrolio, quindi la produzione del resto del mondo è improbabile che aumenti. Se poi anche aumentasse, l’Arabia Saudita potrebbe far crollare il prezzo per portare i nuovi piccoli produttori in banca rotta e farlo risalire in un secondo momento. È il modo standard con cui si gestisce un monopolio: ciò che i monopolisti americani hanno fatto in passato. Che fosse Rockefeller con il petrolio o altri con le reti ferroviarie e l’acciaio. E funziona. È una politica molto semplice e ha dimostrato di funzionare». Quindi è il prezzo del petrolio che guida l’aumento del livello dei prezzi. «Sì. Non è mai stata una questione di domanda ad aver spinto in alto i prezzi. Anche durante il Covid i soldi della spesa pubblica entrati nelle tasche del settore privato sono stati impiegati in larga parte per diminuire il livello di indebitamento e non per effettuare nuove spese o investimenti. Infatti ora l’indebitamento dei consumatori è più basso di quanto sarebbe stato senza pandemia».
E come vede la salute dell’economia USA ed europea?
«Le entrate fiscali stanno aumentando in USA, il che è sintomo di buona salute dell’economia. Il primo segno di crisi economica consiste in una diminuzione delle entrate fiscali, in quanto il reddito dei privati cala e di conseguenza il loro carico fiscale. Non si ha questo effetto immediatamente, solitamente lo si vede con un mese di ritardo. Da voi il tasso di disoccupazione è più alto, quindi direi che in Europa la situazione è peggiore che da noi».
Come giudica le politiche economiche europee e degli Usa?
«Beh, bisogna giudicare le politiche economiche in funzione di quanto raggiungano o meno i loro obiettivi e non ho idea di quali siano gli obiettivi di questa gente (i leader politici). Mi sembra che manchi completamente un piano strategico, un’idea di dove vorrebbero essere da qui ad un anno. Lavorano solo in difesa e non vi è alcun tentativo proattivo guidato da una qualche visione». Quale pensa sia la migliore politica economica per gli USA ed i paesi europei? «Bisognerebbe individuare i problemi, ma penso che le persone non siano d’accordo nemmeno su quali siano i problemi oggi. Potrei proporre una soluzione di partenza per il prezzo della benzina: si potrebbero togliere le accise. Ma non sono sicuro che tutti siano in favore ad una diminuzione del prezzo della benzina, dato che porterebbe il consumo a salire, con tutte le conseguenze del caso. Qui da noi c’è una forte minoranza che vuole un costo della benzina più alto e incentivi per auto elettriche e simili. Questa minoranza in California è più forte e lì il prezzo è già a 6/7$ al gallone contro i 4/5$ del resto degli USA».
Articolo pubblicato sul numero 154 di giugno 2022 del mensile ECONOMIA MAGAZINE