Quando ero uno studente, cioè mentre studiavo formalmente per conseguire titoli [di studio] piuttosto che per acquisire l’approccio all’apprendimento continuo che ci rende perennemente studenti, ero molto interessato all’economia dello sviluppo e ho portato questo tema nella fase di carriera della mia attività lavorativa, che ha incluso il lavoro commissionato per agenzie internazionali in Africa e in Asia. Una delle cose con cui mi sono scontrato in quel lavoro è stata la questione del motivo per cui in Africa, per esempio, le nazioni siano così povere, quando è ovvio per tutti che posseggono una grande ricchezza di risorse. I miei giorni da studente mi hanno permesso di conoscere la teoria della dipendenza, che mi ha fornito un quadro solido per comprendere la natura del sottosviluppo. Essa era in contrasto con la teoria dello sviluppo mainstream che era presentata nella maggior parte dei libri di testo e che ora definiremmo l’approccio neoliberista. Quell’approccio è pubblicamente enunciato dal FMI e dalla Banca Mondiale come se fosse realtà. In realtà è una chimera! Il quadro degli aiuti allo sviluppo e la vigilanza messa in atto dai Paesi più ricchi e intermediata attraverso il volere del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale possono essere visti più come un aspirapolvere gigante destinato ad aspirare le risorse e la ricchezza finanziaria dei Paesi più poveri, con mezzi legali o illegali a seconda di quali generano i flussi più ingenti. Così, nonostante l’Africa sia ricca, la sua interazione con i sistemi monetari e commerciali mondiali lascia milioni dei suoi cittadini in una condizione di estrema povertà, incapaci di acquistare anche solo il cibo necessario a vivere. Si tratta di uno scandalo di proporzioni enormi e dovrebbe diventare l’obiettivo di tutti i governi progressisti (non appena emergono).
Nel fine settimana ho visto un breve documentario prodotto da France24 (pubblicato il 16 giugno 2017): Modern-day slaves: Europe’s fruit pickers [Gli schiavi di oggi: i raccoglitori di frutta dell’Europa, NdT].
Si tratta di un racconto preoccupante di come i gruppi che guadagnano i redditi più elevati in Europa godano di uno stile di vita reso possibile dal duro e illegale sfruttamento di lavoratori che percepiscono un basso salario in Spagna e in Italia. Lo studio specifico tratta il tema dell’industria della frutta, che rifornisce di frutta fresca l’Europa settentrionale per il piacere dei consumatori ma a condizioni orribili per i lavoratori manuali (soprattutto migranti) che fanno il lavoro [di raccolta].
Quando ero uno studente di dottorato, io e un amico (anch’egli studente) organizzammo quello che in maniera piuttosto ovvia pubblicizzammo come un Festival del Film Radicale.
Trovammo un archivio di film a cui potemmo accedere gratuitamente dalla Victorian State Library. C’erano diversi film disponibili, alcuni dei quali presentavano le condizioni di lavoro e gli attacchi ai sindacati in Paesi guidati da regimi di destra in America Latina.
Un film – Chircales (“The Brickmakers” [I fabbricanti di mattoni, NdT]), pubblicato nel 1972 – si concentrava sulla vita di una famiglia impoverita di produttori di mattoni non sindacalizzati nella periferia di Bogotá.
Questo film mostrava come i lavoratori erano sfruttati per arricchire le élite e poi come la famiglia veniva cacciata via dal capitalista quando il marito si era ammalato a causa di anni di lavoro in condizioni rischiose. La scena finale in cui la famiglia (la moglie e diversi figli) cammina dalla cava verso il nulla, trascinando [con sé] una foto della Vergine Maria, è ancora impressa nella mia mente in modo indelebile.
Un altro film che mostrammo era focalizzato sui minatori di stagno della Bolivia e su come i loro tentativi di costituirsi come un sindacato furono schiacciati dai capitalisti, aiutati e sostenuti dal potere della polizia di Stato e delle forze armate.
Eravamo soliti fare un dibattito alla fine di ogni film. Alla fine di quel particolare film, qualcuno nel pubblico disse che era stata una buonissima cosa esporre lo sfruttamento nei Paesi poveri, ma che in Australia le nostre leggi del lavoro impedivano questo genere di cose, quindi si chiedeva quale fosse la rilevanza del film per noi.
In risposta ho posto la domanda: chi nel pubblico aveva mai comprato cibo in scatola o una bevanda in lattina?
Il film di France24 sollevava di nuovo le stesse questioni. La miglior vita di cui molte persone godono avviene a scapito di altri lavoratori con basso salario, che vivono in condizioni precarie e vengono orrendamente sfruttati da un capitalista o da un altro. Il film riportava alla memoria ulteriori ricordi dei miei giorni di dottorato.
Da studente mi sono anche interessato all’opera dell’accademico tedesco Andre Gunder Frank, che nei suoi studi di dottorato all’università di Chicago è stato seguito da Milton Friedman.
Nel suo ultimo lavoro, Gunder Frank è stato un critico feroce dell’approccio del libero mercato sostenuto dai Chicago Boys (la raccolta di studenti di dottorato di Friedman meglio noti per i danni che hanno provocato in Cile dopo il rovesciamento di Salvador Allende condotto da Pinochet nel 1973).
Il primo libro di Gunder Frank che ho letto è stato il suo “Capitalism and Underdevelopment in Latin America” [Capitalismo e Sottosviluppo in America Latina, NdT] del 1967, che si basava sul precedente lavoro (1949) dell’economista argentino Raúl Prebisch e dell’economista tedesco Hans Singer.
La Tesi di Prebisch–Singer è diventata la base della Teoria della Dipendenza, un quadro ben definito per la comprensione del processo dello sviluppo economico.
La loro tesi sfidò la teoria tradizionale dello sviluppo neoclassico (che aveva origine dalle nozioni di vantaggio comparato di David Ricardo) e presupponeva che i termini di scambio [il rapporto tra i prezzi delle merci esportate e quelli delle merci importate, NdT] si muovessero a svantaggio dei Paesi più poveri, privi di una base industriale, favorendo i Paesi industriali più ricchi.
In altre parole, i prezzi mondiali delle materie prime (agricoltura, ecc.) diminuivano nel tempo relativamente al prezzo dei beni industriali, la qual cosa faceva aumentare le disuguaglianze di reddito e ricchezza tra i Paesi (e al loro interno).
Le implicazioni politiche, spinte dagli autori, includevano la raccomandazione che il processo di sviluppo dovesse cominciare con la creazione di una base produttiva che permettesse di realizzare i beni importati.
La teoria tradizionale dello sviluppo economico (teoria della modernizzazione) suggerisce che le nazioni seguono un percorso in cui iniziano come società non sviluppate, primitive, e attraverso l’industrializzazione (investimenti, adozione di tecnologie migliori) e lo sviluppo istituzionale e di governo cominciano a operare come Paesi sviluppati.
Si forma una classe media e i redditi aumentano. Viene quindi incoraggiato un orientamento all’export affinché il Paese si inserisca nell’economia mondiale.
La teoria della dipendenza va oltre quel lavoro e afferma che i Paesi che ora consideriamo sviluppati non sono mai stati “non sviluppati” nel modo in cui vediamo i Paesi, diciamo, in Africa.
Piuttosto, i Paesi cosiddetti “non sviluppati” hanno un ruolo unico nel sistema mondiale, diverso da qualsiasi ruolo i Paesi ricchi abbiano mai giocato.
Invece la visione mainstream è che l’Africa, diciamo, è povera, e sono necessari interventi per renderla ricca.
Ma la teoria della dipendenza considererebbe l’Africa “ricca” e le sue ricchezze verrebbero continuamente drenate a beneficio delle nazioni ricche del centro.
La teoria della dipendenza assume che i flussi di risorse sono diretti dalla periferia al centro, piuttosto che nella direzione opposta. I Paesi ricchi non investono nei Paesi “a basso reddito” per renderli più ricchi.
Piuttosto, i Paesi ricchi hanno messo in atto processi (sostenuti da istituzioni internazionali come l’FMI e la Banca Mondiale) per garantire che le risorse fluiscano a beneficio del mondo avanzato.
Questi processi, che includono sistemi giuridici, regole fiscali, privatizzazione e imposizione di politiche di austerità fiscale per sopprimere lo sviluppo del bene pubblico, minano le opportunità dei Paesi “a basso reddito” di utilizzare la loro ricchezza di risorse a proprio vantaggio.
Nel suo articolo sulla rivista mensile del settembre 1966 The Development of Underdevelopment [Lo sviluppo del Sottosviluppo, NdT] (questo link porta a una ristampa apparsa in una collezione successiva), che è stato un precursore del suo libro del 1967, Gunder Frank scrisse:
« … la nostra ignoranza della storia dei Paesi sottosviluppati ci porta ad assumere che il loro passato e anche il loro presente assomiglino alle prime fasi della storia dei Paesi ora sviluppati. Questa ignoranza e quest’assunto ci conducono a idee fortemente errate sui concetti contemporanei di sottosviluppo e di sviluppo …
… Si ritiene generalmente che lo sviluppo economico avvenga come una successione di fasi del capitalismo e che i Paesi oggi sottosviluppati siano ancora in una fase, talvolta descritta come stadio originario, della storia che i Paesi ormai sviluppati hanno attraversato molto tempo fa. Ma anche una limitata conoscenza della storia mostra che il sottosviluppo non è originale o tradizionale e che né il passato né il presente dei Paesi sottosviluppati assomigliano, in qualche aspetto rilevante, al passato dei Paesi ora sviluppati. I Paesi ora sviluppati non sono mai stati sottosviluppati, anche se potrebbero essere stati non-sviluppati. Molto spesso si crede anche che il sottosviluppo contemporaneo di un Paese possa essere inteso come il prodotto o il riflesso esclusivamente delle sue caratteristiche o della sua struttura economica, politica, sociale e culturale. Eppure la ricerca storica dimostra che il sottosviluppo contemporaneo è in gran parte il prodotto storico delle relazioni, passate e presenti, economiche e di altro tipo, tra il satellite sottosviluppato e i Paesi metropolitani ora sviluppati. Inoltre, queste relazioni sono una parte essenziale della struttura e dello sviluppo del sistema capitalistico considerato su scala mondiale nel suo complesso. »
Si noti l’uso che l’autore fa del termine “sottosviluppo” in opposizione a “non sviluppato”.
In sostanza, Gunder Frank sosteneva che era essenziale capire il rapporto tra la “metropoli e le sue colonie economiche” nel sistema capitalistico.
I Paesi sottosviluppati si trovavano in quello stato perché, da un punto di vista funzionale, erano indispensabili a rendere i Paesi centrali sviluppati ancor più ricchi.
Questa è proprio la concezione del processo di sviluppo economico che organizzazioni quali l’FMI e la Banca Mondiale adottano quando impongono politiche neoliberiste al mondo sottosviluppato.
Quello che Gunder Frank affermava era che queste linee politiche non erano pensate per lo sviluppo dei Paesi non sviluppati ma, piuttosto, per sviluppare i Paesi più ricchi e mantenere i Paesi sottosviluppati in uno stato in cui agissero da condotte di risorse per i Paesi più ricchi.
Lungo il cammino, i Paesi sottosviluppati avrebbero sviluppato una classe media e una circoscritta élite ricca, ma queste sarebbero servite solo a drenare le risorse in modo ancor più efficiente in favore dei Paesi più ricchi.
Gunder Frank affermava che i Paesi sottosviluppati servono “come strumento per succhiare capitali o surplus economico … dai satelliti e incanalare … questo surplus verso le metropoli del mondo”.
Escludeva inoltre l’uso di un processo di sviluppo orientato all’export, il favorito dalla Banca Mondiale e dal FMI, ritenendo che avrebbe distrutto i sistemi locali di sussistenza e accelerato il trasferimento di surplus al centro lasciando le economie periferiche pesantemente indebitate e in uno stato precario.
Stavo pensando a tutto questo quando ho letto una recente relazione sul modo in cui i Paesi più ricchi stanno drenando, con il sostegno del FMI e della Banca Mondiale, le ricchezze dell’Africa, lasciando le nazioni africane con infrastrutture pubbliche di scarsa qualità, elevati e persistenti livelli di povertà e stati precari di dipendenza da indebitamento.
Il rapporto Honest Accounts 2017 (pubblicato nel maggio 2017) è stato pubblicato dalla Global Justice Now in collaborazione con un certo numero di partner, ed è abbastanza sconvolgente da leggere.
Inizia ricordandoci che:
« L’Africa è ricca – nel potenziale di ricchezza mineraria, di lavoratori qualificati, di crescita di nuove imprese e di biodiversità. Gli Africani dovrebbero prosperare, le economie africane dovrebbero essere fiorenti. Eppure molte persone che vivono nei 47 Paesi dell’Africa rimangono intrappolate nella povertà, mentre gran parte della ricchezza del continente viene estratta da coloro che vivono in altri Paesi all’esterno. »
Lo scopo dello studio è quello di calcolare “il movimento delle risorse finanziarie dirette all’Africa e di quelle provenienti dall’Africa e alcuni costi chiave imposti all’Africa dal resto del mondo”.
La conclusione principale è che:
« Troviamo che i Paesi dell’Africa sono, nel complesso, creditori netti nei confronti del resto del mondo per un ammontare di 41,3 miliardi di dollari nel 2015 … Quindi la ricchezza che sta lasciando il continente più povero del mondo è maggiore rispetto a quella che vi sta entrando. »
La seguente grafica del Report fornisce un riepilogo dei flussi finanziari:
Le modalità di estrazione del surplus sono numerose e varie:
- rimpatrio dei profitti,
- flussi finanziari illegali in uscita (contrabbando),
- società transnazionali “che deliberatamente registrano in modo errato il valore delle loro importazioni o esportazioni per ridurre le imposte”,
- rimborsi del debito e dei relativi interessi “con il rapido aumento complessivo del livello del debito”,
- risorse preziose “che sono rubate all’Africa nelle pratiche illegali di pesca, di disboscamento e nel commercio di fauna selvatica e piante”,
- “politiche commerciali che implicano che i beni agricoli non trasformati vengono spesso esportati da Paesi africani e raffinati altrove, consentendo che la maggior parte del suo valore sia indirizzata all’estero.
I Paesi più ricchi impongono costi all’Africa anche in altri modi:
- « il costo, per i Paesi africani, dell’adattamento al cambiamento climatico: un processo generato in gran parte dai Paesi più ricchi, industrializzati e in corso di industrializzazione, che non sono in Africa, che ammonta a 10,6 miliardi di dollari l’anno »;
- « il costo per l’Africa per attenuare i cambiamenti climatici – per riorientare le economie africane verso un percorso a basso impiego di carbonio – ancora una volta dovuto alla necessità di affrontare il cambiamento climatico: il costo annuale è ancora maggiore, 26 miliardi di dollari ».
Al punto che “l’Africa non è povera” ma “molte persone nei Paesi africani vivono in povertà” non può essere data troppa enfasi.
Mi ricordo quando, mentre stavo facendo una ricerca sul campo in Sudafrica alcuni anni fa, ero in contatto con il Ministero del Tesoro Sudafricano e con l’FMI.
La questione riguardava la mia tesi secondo cui il programma “Expanded Public Works” [Programma di Governo che mira a ridurre la povertà e dare un sostegno al reddito attraverso l’impiego temporaneo – pubblico o privato – di disoccupati. Fonte: Gov.za, NdT] avrebbe dovuto essere notevolmente ampliato per somigliare più ad un programma di lavoro garantito guidato dalla domanda piuttosto che ad un programma guidato dall’offerta (vincolato dal punto di vista finanziario) con una limitata copertura.
Il Paese, al tempo, stava realizzando surplus di bilancio anche se vi erano più di 12 milioni di persone che vivevano in una condizione di povertà estrema (circa il 22% della popolazione), il che significava che essi non erano finanziariamente in grado di soddisfare i bisogni nutrizionali primari, tanto meno l’alloggio e l’assistenza sanitaria.
Circa il 35-37% della popolazione non poteva acquistare beni essenziali non alimentari.
E circa il 55% aveva abbastanza da mangiare ma era considerato povero secondo i normali standard (che, potrei aggiungere, sono ridicolmente bassi).
Comunque, ricordo un funzionario del Tesoro che in una discussione batteva i pugni sul tavolo dicendo: “Come possiamo permetterci di espandere il programma?”.
Risposi facendo notare come il Sudafrica non fosse solo uno Stato che emetteva la propria valuta, ma anche uno dei Paesi più ricchi al mondo in termini di risorse reali.
Quindi, in che modo non avrebbe potuto permettersi di utilizzare una maggior quantità di risorse in modo produttivo e liberare una maggior quantità di persone dalla povertà?
Il funzionario dell’FMI sostenne che lo Stato avrebbe dovuto continuare a realizzare surplus perché doveva assicurarsi di poter pagare i suoi debiti internazionali.
A quel punto, potei sentire l’immenso suono di risucchio [l’espressione giant sucking sound è stata coniata dal candidato alle presidenziali degli Stati Uniti Ross Perot in riferimento agli effetti negativi che avrebbe comportato il NAFTA, l’accordo di libero scambio del Nord America, a cui lui si opponeva; fonte: Wikipedia.org, NdT] mentre le risorse finanziarie e reali erano risucchiate altrove, fuori dal Paese, a beneficio di qualcun altro, con alcune perdite che fuoriuscivano a vantaggio dei funzionari locali, cooptati per volere dell’FMI e della Banca Mondiale, che agivano più o meno come loro agenti.
E visto che questo è avvenuto nel periodo post-apartheid, io, naturalmente, mi riferisco all’élite nera che recentemente aveva preso il potere in Sudafrica.
Il Global Justice Report chiarisce che:
- « l’Africa sta generando grandi quantità di ricchezza e, in qualche modo, sta crescendo rapidamente »;
- « il valore delle riserve minerali nel terreno è di sicuro ancora più grande, la ricchezza minerale potenziale del Sudafrica è stimata essere pari circa 2˙500 miliardi di dollari… »;
- « le imprese sono comunque in grado di evitare di pagare le tasse dovute con facilità a causa del loro utilizzo della pianificazione della tassazione [cfr Wikipedia.org, NdT] attraverso i paradisi fiscali. Molte politiche fiscali africane sono il risultato di pressioni politiche di lungo corso dei governi occidentali che hanno insistito sull’abbassamento delle tasse in Africa per attrarre gli investimenti privati »;
- « le Multinazionali rubano ricchezza »;
- « la povertà dell’Africa è molto più profonda di quanto la Banca Mondiale ami rendere pubblico … e cresce … ».
La domanda è: che cosa si può fare al riguardo?
Originale pubblicato il 19 giugno 2017
Traduzione a cura di Veronica Frattini