« “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
È compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’Art. primo – “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” – questa formula corrisponderà alla realtà.
Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica, perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società. »
Così parlava Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione italiana, agli studenti di Milano nel lontano 1955.
Queste parole, questi intenti così nobili, non solo sono ancora attuali, ma mancano ancora della loro completa realizzazione. Anzi, nell’ultimo ventennio sono sempre più messe in discussione, fino a porre come articolo cardine della Costituzione, su pressante richiesta delle istituzioni europee, che « Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio… » (art. 81).
È evidente che la garanzia di un lavoro dignitoso per tutti non può realizzarsi con stretti vincoli di bilancio, ma l’unico modo per attuarla è un deficit di bilancio dello Stato. Il diritto al lavoro di tutti i cittadini, e l’obbligo da parte dello Stato di tradurre tale diritto in fatti concreti, non è solo un’istanza laica, ma lo si sancisce anche nella cosiddetta Dottrina Sociale della Chiesa cattolica, declinato e rafforzato in chiave morale. Così: « Il lavoro è un bene dell’uomo, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, “diventa più uomo”. » (Laborem exercens, Giovanni Paolo II). Quindi l’Uomo ha bisogno di un lavoro dignitoso per realizzare se stesso e la Società in cui vive, elevandola col proprio ingegno e con le sue attività.
Quanto ne siamo distanti oggi, in un contesto economico di stampo espressamente neoliberista, in cui al principio di solidarietà si sostituisce la competizione estrema, all’accoglienza ci inducono a preferire il “respingimento” e la ghettizzazione! La realtà è davanti agli occhi di tutti, basta che si desideri andare oltre gli ossequiosi comunicati dei “giornalai” italiani: il nostro Paese arretra, perfino più di altri, non solo dal punto di vista prettamente economico, ma anche sociale, sanitario, giuridico, della certezza del diritto, dell’istruzione e della ricerca.
Questo, si badi bene, non è un risultato casuale, ma voluto e ricercato in maniera precisa, in quei contesti di potere economico in cui la disoccupazione è giudicata positivamente perché fa aumentare le ricchezze dei più forti a scapito dei più deboli. La competizione per un lavoro fa scadere i diritti sacrosanti, imbruttisce il Popolo e lo rende meschino, lo fa chiudere in se stesso. Lo dice il rapporto Istat di quest’anno: diminuiscono le nascite, progredisce l’invecchiamento della popolazione, diminuisce perfino la speranza di vita, diminuisce la partecipazione culturale, è in forte ripresa l’emigrazione di Italiani verso altri Paesi, il sistema di protezione sociale del nostro Paese è, tra quelli europei, uno tra i meno efficaci. Il cinquantesimo rapporto Censis 2016 denuncia che oramai “i figli sono più poveri dei nonni”.
In questo contesto nasce la proposta di un Piano nazionale di Lavoro Transitorio, realizzazione fattiva di quel diritto sancito dalla Costituzione, vale a dire il lavoro. È chiaro che una disoccupazione a tasso 0% uno Stato la può ottenere non certo perseguendo politiche di austerità, ma solo garantendo il lavoro a tutti coloro che lo richiedono, facilitando il passaggio dallo stato di disoccupazione allo stato di impiego nel settore privato, dando a tutti la possibilità di maturare una continuità professionale. Quindi uno stabilizzatore dell’economia a livello di piena occupazione, che assicura un reale accesso universale al lavoro ponendo fine alla povertà.
Il PLT possiede una valenza superiore, ad esempio, rispetto al reddito di cittadinanza, in quanto nel Piano di Lavoro Transitorio l’accento dell’azione governativa è posto sul lavoro, quale motore principale dello sviluppo della società civile. Il lavoro come funzione sociale, che, con maggiore forza rispetto alla proposta del reddito di cittadinanza, eleva l’Uomo ancor più del conseguente reddito, senza incorrere in una latente disuguaglianza rispetto a chi il lavoro ce l’ha già.
Il PLT potrebbe essere ideato per favorire tutte quelle situazioni che difficilmente appaiono interessanti per i privati: piccole opere di manutenzione a favore di proprietà pubbliche di pregio, a favore del paesaggio (es. pulizia dei boschi, manutenzione dei sentieri), miglioramento della sicurezza delle comunità locali ad esempio contro le alluvioni (pulizia e manutenzione degli alvei dei fiumi).
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
[art. 4 Cost.]