Data la necessità di un livello più elevato di debito pubblico nazionale ed essendo in ultima istanza la BCE l’unica a poter staccare l’assegno, discuterò ora delle opzioni politiche che permettono di chiudere l’output gap e dei rischi ad esse associati.
Una semplice garanzia da parte della BCE sul debito pubblico dei Paesi e un allentamento dei limiti di Maastricht ad almeno il 7% del PIL determinerebbero un’immediata espansione delle vendite, della produzione, dell’occupazione e della prosperità in generale.
Tuttavia, senza un’adeguata azione di vigilanza che garantisca il rispetto di tali limiti questa espansione innescherebbe anche una corsa inflazionistica sregolata poiché il Paese che riuscisse a realizzare i livelli più elevati di deficit trarrebbe maggiori benefici in termini reali. Quindi la sfida consiste nel concedere un livello di espansione fiscale tale da compensare le perdite di domanda nei Paesi membri senza però disporre del controllo fiscale diretto a livello centrale di cui dispone un’unione valutaria come quella statunitense.
Un’altra opzione sono i titoli di credito fiscale. Si tratta di titoli trasferibili che possiedono le stesse caratteristiche dell’odierno debito sovrano ma che, in caso di mancato pagamento (non c’è alcuna condizione di default), possono essere utilizzati per il pagamento delle tasse del Paese in questione. Questo significa che ai contribuenti di altri Paesi membri dell’Ue non verrà mai chiesto di pagare le obbligazioni di alcun altro Paese membro, cosa che presumo avrebbe un’ampia attrattiva politica.
Una terza opzione è che annualmente la BCE distribuisca “contante” ai Paesi membri in misura, ad esempio, del 10% del Pil dell’Eurozona su base pro capite. Questo consentirebbe ai Paesi di iniziare una sistematica riduzione del deficit fino al completo annullamento su un periodo pluriennale. A tal fine la BCE potrebbe negare il pagamento ai violatori, cosa decisamente più semplice da fare rispetto a imporre e raccogliere multe come succede oggi.
Vent’anni fa ero a Roma al Ministero delle Finanze con il Professor Luigi Spaventa insieme al mio collega Maurice Samuels della Harvard Management. Anche quelli erano tempi bui per l’Italia. Il debito superava il 100% del PIL, i tassi d’interesse erano oltre il 12%, l’economia globale era debole e il professor Rudi Dornbusch chiudeva il cerchio proclamando che il default dell’Italia era certo. Retoricamente chiesi al Professor Spaventa perché l’Italia stesse emettendo CCT (Certificati di Credito del Tesoro) e BTP (Buoni del Tesoro Poliennali). Era per finanziare le spese o perché se il Tesoro avesse speso lire senza emettere titoli e la Banca d’Italia non avesse venduto titoli il tasso overnight sarebbe crollato a zero? Ci fu una lunga pausa prima che il Professor Spaventa rispondesse: «No, i tassi si ridurrebbero solo allo 0,5% visto che noi paghiamo interessi sulle riserve», dando prova di piena e repentina comprensione del fatto che non ci fosse alcun rischio di default. Dopodiché si lanciò in un’invettiva alle condizionalità dell’FMI. Era stato sollevato un grande peso. La settimana seguente fu annunciato: «Non sarà presa nessuna misura straordinaria, tutti i pagamenti saranno effettuati puntualmente» e la crisi di debito svanì.
Risolvere quella crisi di debito fu relativamente facile poiché nei fatti non c’era alcuna crisi di debito. Oggi la situazione è più seria e più complessa. Il problema economico è che il livello di deficit è troppo basso, mentre l’impressione della politica è che il deficit sia troppo elevato. E il conseguente finanziamento con condizionalità da parte della BCE si traduce in tassi più bassi e disoccupazione più alta.
Si noti che non ho fatto alcun accenno al tasso d’interesse o alla politica monetaria in generale. I miei quarant’anni di esperienza come insider nelle operazioni monetarie mi dice che contano molto poco per la crescita e l’occupazione. E per i Paesi con deficit elevato sono giunto ad avere aspettative di tassi elevati da parte della Banca Centrale, che promuove l’inflazione tramite i canali delle entrate per interessi e attraverso la struttura dei costi generale dell’economia.
Concluderò con qualche parola sull’inflazione. Così come il dollaro, lo yen e la sterlina, l’euro è un semplice monopolio pubblico. E il monopolista è necessariamente un price setter, non un price taker [1].
Inoltre un monopolista fissa due prezzi. Il primo è quello che Marshall chiamò “tasso proprio”, il prezzo al quale l’oggetto del monopolio viene scambiato con se stesso. Per una valuta questo è il tasso d’interesse fissato dalla BC.
Il secondo è il prezzo al quale lo stesso oggetto viene scambiato con altri beni e servizi. Per una valuta è il livello dei prezzi. Io lo definisco in questo modo: il livello dei prezzi è necessariamente una funzione dei prezzi pagati dal Governo di emissione quando spende e/o delle garanzie richieste quando presta.
Per l’Eurozona questo significa che in ultima istanza il controllo dell’inflazione si realizza mediante il contenimento della spesa pubblica, limitando i prezzi a cui ai Paesi membri è consentito pagare quando spendono.
Come per l’attività bancaria centrale, è una questione di prezzo e non di quantità.
Grazie.
Note del Traduttore
1.^ In assenza di concorrenza, il prezzo della valuta è determinato dal monopolista (price setter) e non dal mercato (che, dovendo accettarlo, si trova quindi in posizione di price taker).
Originale pubblicato nel 1995, Revisione pubblicata nel 2012
Traduzione a cura di Andrea Sorrentino, Supervisione di Maria Consiglia Di Fonzo e Daniele Basciu