Precedentemente, abbiamo mostrato che il deficit pubblico porta [alla creazione di] un pari ammontare di risparmio privato. Il risparmio privato creato sarà detenuto sotto forma di crediti nei confronti dello Stato. Normalmente, il settore privato preferisce possedere parte di quel risparmio sotto forma di ITD dello Stato che fruttano un interesse, piuttosto che di ITD non fruttiferi come il contante. Inoltre, abbiamo mostrato che il deficit di bilancio crea un pari ammontare di riserve [bancarie]. E le banche preferiscono detenere asset a rendimento più elevato rispetto alle riserve, che non pagano quasi nulla (fino a poco tempo fa, negli USA esse non pagavano nulla). Pertanto, sia i risparmiatori che le banche preferiscono avere Titoli di Stato.
Scopriamo, quindi, che in tempi normali lo Stato offrirà Titoli fruttiferi in quantità pari almeno all’ammontare del suo deficit (la differenza è dovuta all’accumulo di riserve da parte delle banche ed all’accumulo di valuta da parte del settore privato).
Tuttavia, quando lo Stato spende a deficit, parte di quei crediti [vantati] nei suoi confronti finiranno nelle mani dei residenti all’estero. È importante? Si, a parere di molti. Ad un estremo, abbiamo molti commentatori che si preoccupano del fatto che il Governo USA potrebbe realizzare spesa a deficit, ma si renderà conto che il desiderio della Cina di “prestare” al Governo USA non è sufficiente ad assorbire le emissioni di Titoli. Mentre altri sostengono che il Giappone è in grado di sostenere un rapporto debito pubblico-Pil pari al 200% solo perché oltre il 90% di quel debito è nelle mani dei residenti nazionali. Gli USA, dicono, non possono sostenere un livello di debito così elevato perché gran parte del loro “indebitamento” proviene dall’estero — [estero] che potrebbe “scioperare”. Altri si preoccupano della capacità del Governo USA di pagare (ad esempio) gli interessi all’estero. E se [quest’ultimo] dovesse chiedere interessi più elevati? Che dire poi degli effetti sui tassi di cambio? Questa settimana cominceremo a trattare questi punti.
Debito pubblico detenuto all’estero. La spesa pubblica a deficit crea un equivalente ammontare di risparmio privato (al centesimo). Tuttavia, parte del risparmio creato si accumulerà nelle mani dei residenti all’estero, visto che essi possono accumulare il debito pubblico denominato nella valuta nazionale.
Oltre a detenere effettivamente valuta, sia sotto forma di contanti sia di riserve (per la verità, è possibile che i residenti all’estero detengano la maggior parte della valuta in forma cartacea, denominata in Dollari USA), essi possono detenere anche Titoli pubblici. Questi, di solito, assumono semplicemente la forma di voci elettroniche sui registri della Banca Centrale dello Stato emettitore. L’interesse su questi “Titoli” viene corrisposto nella stessa maniera, siano essi nelle mani di residenti all’estero o di residenti nazionali — semplicemente attraverso una voce elettronica “digitata” che si somma al valore nominale del “Titolo” (anch’esso una voce elettronica). Le preferenze di portafoglio dei titolari stranieri determineranno se essi deterranno Titoli o riserve — con un più alto rendimento sui Titoli. Come discusso nelle settimane precedenti, lo spostamento da riserve a Titoli avviene elettronicamente, ed è molto simile ad un trasferimento da un “conto a vista” (riserve) ad un “conto di risparmio” (Titoli).
È convinzione comune che faccia un’enorme differenza che queste voci elettroniche sui registri della Banca Centrale siano in possesso di residenti nazionali piuttosto che esteri. Il ragionamento è che i residenti nazionali sono molto meno inclini a spostarsi verso asset denominati in altre valute.
Supponiamo che, per qualche ragione, coloro che detengono il debito pubblico di uno Stato all’estero, decidano di spostarsi verso un debito denominato in qualche altra valuta. In tal caso, essi lasciano giungere il Titolo a scadenza (rifiutandosi di reinvestire in un altro strumento [di debito]) oppure lo vendono. Il timore è che ciò potrebbe avere effetti sul tasso d’interesse e sul tasso di cambio — poiché alla scadenza del Titolo, lo Stato potrebbe dover emettere nuovo debito ad un tasso d’interesse più elevato, e la pressione dovuta alla vendita potrebbe provocare un deprezzamento del tasso di cambio. Analizziamo queste due possibilità separatamente.
a) Pressione sul tasso d’interesse. Supponiamo che ingenti quantità di Titoli di Stato siano detenute esternamente, da residenti all’estero. Assumiamo che essi preferiscano detenere riserve anziché Titoli — magari perché non sono contenti del basso tasso d’interesse pagato sui Titoli. Possono spingere il Governo ad aumentare il tasso d’interesse che paga sui Titoli?
Un allontanamento delle preferenze di portafoglio dei residenti all’estero dai Titoli di Stato ne riduce gli acquisti. Sembrerebbe che solo un aumento dei tassi d’interesse promessi dallo Stato potrebbe ripristinare la domanda estera.
Tuttavia, ricordiamo da discussioni precedenti che i Titoli sono venduti al fine di offrire un’alternativa fruttifera alle riserve, che pagano un interesse esiguo o nullo. I residenti all’estero e quelli nazionali acquistano Titoli di Stato quando essi sono più allettanti rispetto alle riserve. Rifiutare di “reinvestire” i Titoli in scadenza significa semplicemente che le banche, a livello aggregato, deterranno una maggior quantità di riserve (crediti presso la Banca Centrale dello Stato emettitore) e una minore di Titoli. Vendere Titoli che non sono ancora giunti a scadenza sposta semplicemente le riserve — dall’acquirente al venditore.
Nessuna di queste attività forzerà la mano dello Stato emettitore — non c’è alcuna pressione su di esso ad offrire tassi d’interesse superiori nell’intento di attrarre acquirenti per i suoi Titoli.
Dalla prospettiva dello Stato, è perfettamente ragionevole consentire alle banche di detenere una maggior quantità di riserve emettendo, al contempo, meno Titoli. Oppure esso potrebbe offrire tassi d’interesse più elevati per vendere un maggiore quantità di Titoli (anche se non vi è alcuna necessità di farlo); ma ciò significa semplicemente che i clic sulla tastiera vengono usati per accreditare un interesse più elevato a coloro che detengono i Titoli.
Lo Stato si può sempre “permettere” una maggiore quantità di clic sui tasti, ma i mercati non possono forzare la mano del Governo perché esso può semplicemente smettere di vendere Titoli e, pertanto, lasciare invece che i mercati accumulino riserve.
b) Pressione sul tasso di cambio. La questione più importante riguarda il caso in cui i residenti all’estero scelgano di non detenere né riserve né Titoli denominati in una certa valuta.
Quando i titolari all’estero decidono di vendere i Titoli di Stato, essi devono trovare acquirenti disponibili. Assumiamo che essi vogliano cambiare valuta, a quel punto devono trovare titolari di crediti in riserve denominate nell’altra valuta disposti a scambiarle con i Titoli messi in vendita. È possibile che i potenziali acquirenti acquisteranno Titoli solo ad un tasso di cambio inferiore (misurato come il valore della valuta dello Stato emettitore dei Titoli offerti in vendita rispetto al valore della valuta desiderata dai venditori).
Per questo motivo, è vero che le vendite estere del debito di uno Stato possono influenzare il tasso di cambio. Tuttavia, fintanto che lo Stato è disposto a lasciar “fluttuare” il suo tasso di cambio, esso non ha necessità di reagire allo scopo di prevenire un deprezzamento.
Ne concludiamo che la variazione delle preferenze di portafoglio dei titolari esteri può, in effetti, portare ad un deprezzamento della valuta. Ma fintanto che la valuta ha un tasso di cambio fluttuante, lo Stato non deve intraprendere ulteriori azioni se ciò avviene.
Partite correnti e accumulo di crediti all’estero. Ma come fanno i residenti all’estero ad entrare in possesso di riserve e Titoli denominati nella valuta nazionale di uno Stato?
Come abbiamo mostrato nelle settimane precedenti, il nostro saldo macroeconomico settoriale assicura che, se il saldo del settore privato nazionale è nullo, allora il deficit di bilancio dello Stato è pari al deficit delle partite correnti. Quel deficit delle partite correnti porterà, all’estero, ad un accumulo netto di asset finanziari nella forma di debito pubblico. Questo è il motivo per cui, ad esempio, il Governo USA sta realizzando spesa a deficit emettendo Titoli di Stato, acquistati in Cina e altrove.
Certo, nel caso degli Stati Uniti, per molti anni (durante le presidenze di Clinton e Bush Jr.) anche il settore privato nazionale stava incorrendo in un deficit di bilancio — quindi i residenti all’estero hanno anche accumulato crediti netti nei confronti di famiglie ed imprese americane. Il deficit delle partite correnti USA garantisce — per identità contabile — che i crediti in Dollari saranno accumulati dai residenti all’estero.
Dopo la crisi, il settore [privato] USA ha pareggiato il suo bilancio ed iniziato, in effetti, a realizzare un surplus. Tuttavia, il deficit delle partite correnti è rimasto. Il deficit di bilancio del Governo USA è aumentato — per identità, esso era pari al deficit delle partite correnti sommato al surplus del settore privato. Dato che il Governo USA è diventato l’unica fonte netta di nuovi asset finanziari denominati in Dollari (il settore privato USA stava realizzando un surplus), i residenti all’estero devono — per identità contabile — aver accumulato debito pubblico USA.
Alcuni temono — come detto in precedenza — che all’improvviso i Cinesi potrebbero decidere di smettere di accumulare debito pubblico USA. Ma bisogna riconoscere che non possiamo semplicemente cambiare una parte dell’identità contabile, e non possiamo ignorare la coerenza stock-flusso che deriva da essa.
Affinché il resto del mondo smetta di accumulare asset denominati in Dollari, esso deve anche smettere di realizzare surplus delle partite correnti nei confronti degli USA. Pertanto, l’altra faccia della decisione della Cina di smettere di accumulare Dollari, dev’essere una decisione di interrompere le esportazioni nette verso gli Stati Uniti. Potrebbe avvenire — ma la probabilità è scarsa.
Inoltre, cercare di realizzare un surplus delle partite correnti nei confronti degli USA evitando, contemporaneamente, l’accumulo di asset denominati in Dollari, richiederebbe che i Cinesi si liberassero dei Dollari che guadagnano grazie alle esportazioni verso gli USA — vendendoli in cambio di altre valute. Ciò richiede, ovviamente, che essi trovino acquirenti disposti a comprare i Dollari.
Questo potrebbe — come molti commentatori temono — portare ad un deprezzamento del valore del Dollaro. Il che, a sua volta, esporrebbe i Cinesi ad una possibile svalutazione del valore delle loro proprietà in Dollari USA — riserve e Titoli di Stato, per un totale superiore a duemila miliardi di Dollari.
Il deprezzamento del Dollaro farebbe anche aumentare il costo in Dollari delle loro esportazioni, mettendo a rischio la loro capacità di continuare ad esportare verso gli USA. Per queste ragioni, un improvviso allontanamento della Cina dal Dollaro è piuttosto improbabile. Una possibilità è una lenta transizione verso altre valute — e più verosimile se la Cina può trovare mercati alternativi per le sue esportazioni.
La settimana prossima analizzeremo la frequente affermazione per cui gli USA sono “particolari”— essi potrebbero essere in grado di realizzare deficit pubblici e deficit commerciali persistenti, altri Paesi — al contrario — non ne hanno la possibilità.
Originale pubblicato il 13 novembre 2011
Traduzione a cura di Andrea Sorrentino, Supervisione di Maria Consiglia Di Fonzo