La Teoria

Istruzioni per fermare un’economia… senza ucciderla

In caso di pandemia, la gerarchia delle priorità cambia drasticamente, e se fino al giorno prima tutti stavano attenti alle variazioni dei decimali sulla crescita del PIL, dal giorno dopo la priorità diventa sopravvivere, e far sopravvivere un’economia che per necessità deve viaggiare a regimi molto ridotti. In questa situazione, è necessario stabilire un obiettivo politico chiaro ed intraprendere le misure adatte a raggiungerlo. L’obiettivo, almeno in Italia, è quello di dare priorità al diritto alla salute, fermando le produzioni secondarie. Il problema che si pone è quindi il seguente: come si ferma un’economia senza arrecarvi ingenti danni? È necessario evitare la chiusura delle imprese, l’aumento della disoccupazione, la deprivazione dei risparmi, garantendo al tempo stesso le produzioni di prima necessità: non è possibile “fermare tutto”, ma bisogna fermare “quasi tutto”.

È chiaro: il tessuto economico è fatto di mille fattispecie aziendali e famigliari, ognuna con le sue peculiarità, ma il lavoro dell’economista è quello di trovare i fattori comuni fra tutte le particolari manifestazioni di un fenomeno, per trarne delle “leggi” generali, utili poi ad orientarsi nelle scelte politiche. Affrontiamo dunque il tema in termini teorici per poi arrivare a formulare un indirizzo di politica economica coerente.

La domanda di valuta

Ognuno di noi esprime una certa “domanda di valuta”, che è la volontà di percepire un reddito, a fronte delle proprie necessità di spesa – se non avessimo necessità di spendere, non avremmo nemmeno bisogno di reddito. La prima causa di innalzamento del nostro bisogno di reddito è la tassazione: essa è un elemento esterno all’economia, deciso dal potere statale, per noi ineliminabile e dunque vincolante. Oltre a pagare le tasse, abbiamo bisogno di spendere valuta per acquistare beni e servizi. Parte di questi sono beni di prima necessità – anche in questo caso ci troviamo vincolati a dover spendere per acquistarli – mentre altri sono beni secondari, a cui potremmo rinunciare senza gravi conseguenze. Oltre a ciò, un altro motivo di spesa sono i pagamenti vincolati: i mutui, gli affitti, le assicurazioni, le bollette, le obbligazioni: tutti quei pagamenti regolati da contratti, che implicherebbero sanzioni se non onorati. Infine, esprimiamo una volontà di risparmio: se desideriamo aumentare il nostro patrimonio finanziario, saremo disposti a lavorare di più e domanderemo più valuta in cambio. Abbiamo quindi individuato cinque fattori che concorrono alla determinazione della domanda di valuta e possiamo sintetizzarli in una formula, così che siano subito evidenti:

D = T + Cn + Cs + Pv + R

Traducendo: la domanda di valuta è data dalla somma delle tasse (T) che dobbiamo pagare, dei consumi necessari (Cn) o secondari (Cs) che abbiamo intenzione di effettuare, dei pagamenti vincolati (Pv) in scadenza e dei risparmi (R) che vogliamo accumulare. Questo discorso si applica anche alle aziende: gli stipendi dei dipendenti sono pagamenti vincolati, mentre i pagamenti ai fornitori sono consumi, necessari o secondari a seconda del caso specifico. Il risparmio, per le aziende, rappresenta l’utile netto.

Se l’obiettivo è fermare l’economia per evitare la diffusione di un’epidemia, allora è necessario far sì che le persone e le aziende diminuiscano in maniera drastica la propria domanda di valuta, ma senza incorrere in danni gravi. È dunque necessario preservare la loro capacità di sostenere i consumi necessari ed è anche necessario evitare che il loro patrimonio finanziario diminuisca: R non deve scendere sotto zero. Possiamo dunque immaginare una situazione in cui persone e aziende siano costrette a rinunciare ai consumi secondari e al risparmio – la cui mancanza non è sinonimo di fallimento o grave danno personale – e siano invece poste nella condizione di poter far fronte agli altri pagamenti.

Stabiliti gli obiettivi, passiamo alla pratica. La prima decisione che lo Stato deve prendere è su quali attività lasciar proseguire e quali chiudere forzatamente. Ipotizziamo che vengano lasciate proseguire le attività di produzione dei beni di prima necessità – quelli per cui si effettua la spesa Cn – e le aziende in grado di utilizzare lo smart working, mentre tutti gli altri siano costretti a rimanere a casa. A questo punto, per tutelare i secondi, lo Stato dovrà fare in modo che la loro domanda di valuta sia soddisfatta.

A tal proposito, lo Stato può decretare l’azzeramento delle tasse e la sospensione dei pagamenti vincolati. In questo modo, consumi e risparmi sono gli unici termini che restano positivi nell’espressione della domanda di valuta. Se consideriamo accettabile la rinuncia ai consumi secondari e all’accumulazione di ricchezza finanziaria, allora lo Stato dovrebbe preoccuparsi solamente di garantire la possibilità di accesso ai consumi necessari [1]. Pertanto, si dovrebbe erogare un contributo a tutti i cittadini e le aziende interessati dalle chiusure forzate che sia sufficiente a coprire le spese per consumi necessari.

Possiamo elaborare matematicamente queste considerazioni come segue. Senza tasse e pagamenti vincolati, la domanda di valuta risulta:

D = Cn + Cs + R

mentre il reddito (Y) garantito dallo Stato dovrebbe ammontare a:

Y = Cn

Il livello dei prezzi

A questo punto è necessario fare un’osservazione riguardo il livello dei prezzi. Nelle situazioni di crisi dell’economia reale, la diminuzione dei prodotti disponibili sul mercato può causare un innalzamento repentino del livello rei prezzi. Le misure presentate sopra hanno anche l’effetto di limitare – o addirittura scongiurare completamente – questo fenomeno. Infatti, offrire un contributo statale sufficiente a coprire i consumi necessari (valutati a prezzi correnti), ma non più alto, permette di evitare che la spesa per tali beni superi la capacità produttiva del sistema. Questo potrebbe essere sufficiente, ma va tenuto presente che chi continua a lavorare continua anche a percepire reddito: il momento di crisi probabilmente determinerà un aumento della volontà di risparmio di questi agenti, che ridurrebbero così le loro spese senza conseguenze su prezzi, ma potrebbe anche accadere che essi aumentino la spesa per beni primari, aumentando il rischio inflattivo. Lo Stato può agire su due fronti al fine di disincentivarne questo fenomeno: può aumentare la tassazione su questi agenti e può offrire alternative d’investimento, come titoli di Stato non cedibili con scadenza a 6 mesi a un tasso di interesse vantaggioso [2]. Se queste azioni non dovessero essere sufficienti e si verificasse comunque una spinta inflazionistica, lo Stato non dovrebbe comunque cedere alla tentazione di alzare salari, pensioni e altri contributi: ciò andrebbe nella direzione di alimentare la spirale inflazionistica. Invece, dovrebbe agire nella direzione del potenziamento del sistema produttivo per fare in modo che, una volta cessata la crisi, il livello dei prezzi si ristabilizzi rapidamente. In generale, ogni azione di stimolo alla spesa (quindi al PIL) è da evitare, se l’obiettivo è quello di ridurla.

Conclusioni

Abbiamo visto che l’azzeramento delle tasse e la sospensione dei pagamenti vincolati, unitamente ad un contributo sufficiente a sostenere le spese necessarie, sarebbe un modo per evitare che le famiglie e le imprese “in quarantena” subiscano gravi danni come conseguenza allo stop lavorativo. Riguardo il livello dei prezzi, il miglior modo per combattere il rischio inflazione è disincentivare le spese superflue, utilizzando la tassazione ed offrendo investimenti alternativi, ed allo stesso tempo fornire un contributo a chi è costretto a non lavorare che non vada a superare le necessità di spesa legate ai beni primari.

A questo punto possiamo far notare che la scelta di lasciare che molte produzioni strategiche delocalizzassero non è stata saggia: la produzione di materiale sanitario, solo per fare un esempio, sarebbe stata di fondamentale importanza in questo momento, ma in Italia è solo una l’impresa che produce ventilatori polmonari. Le produzioni strategiche vanno non solo mantenute in Italia: vanno, almeno in parte, nazionalizzate, così da assicurarsi che non vengano a mancare nel momento del bisogno. Questo discorso ci riporta anche alla mente l’argomento spending review. Sono innumerevoli gli episodi in cui illustri economisti si sono prodigati a favore dei tagli alla sanità negli scorsi decenni, tanto che l’Italia, nel 2020, ha 3,2 posti letto ogni 1000 abitanti, rispetto ai 9,3 del 1981 [3]. È una questione di priorità e scelte politiche: se si vuole fare l’interesse della comunità, i posti letto vanno ripristinati. Se si vuole fare l’interesse della sanità privata, vanno diminuiti ancora. L’importante è che sia chiara l’intenzione, e che non si provino a giustificare queste misure con la necessità di ridurre il debito pubblico, uno spauracchio ormai superato. A proposito: la BCE ha appena abbattuto lo spread un’altra volta, ed è bastato un comunicato.

 

Articolo di Daniele Busi e Marco Compagnoni

 

Note degli Autori

1.^ Il valore Cn varia da individuo a individuo. Lo Stato dovrebbe dunque erogare il contributo sulla base delle singole fattispecie: numero di figli a carico delle famiglie, dimensione e tipologia delle aziende, ecc.

2.^ Questa linea fu seguita con successo negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale.

3.^ Fonti: ISTAT, EUROSTAT e Ministero della Salute


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2 Commenti

  • Salve,

    Perché i tds non devono essere cedibili?

    Perché altrimenti rischierebbero di provocare un aumento generalizzato dei tassi d’interesse?

    E perché a 6 mesi?

    • Buongiorno Andrea.

      Le caratteristiche descritte discendono dall’obiettivo dell’operazione, cioè incrementare la volontà di risparmio nell’immediato e disincentivare il consumo non necessario.

      A questo scopo, lo strumento migliore è offrire titoli a breve termine ad un tasso vantaggioso. A breve termine, e non a lungo termine, perché si vuole drenare liquidità nell’immediato, ma non si intende immobilizzarla per 10 o 20 anni. Non è questo l’obiettivo.

      Non cedibili perché non c’è ragione per cui lo debbano essere. La cedibilità dei titoli è vantaggiosa nel lungo termine, poiché è possibile che nel corso degli anni cambino le condizioni economiche del possessore, e che questi abbia bisogno di vendere i titoli per avere liquidità. Tuttavia, ciò non può accadere nel giro di sei mesi. Concedere la cedibilità, in questo caso, significherebbe solamente incentivare la speculazione, cosa tra l’altro molto pericolosa per un Paese privo di sovranità monetaria, in un momento di instabilità economica.

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