Approfondimento

Mosler/Pilkington: Risposta a Yanis Varoufakis riguardo al nostro piano di uscita dall’Eurozona

Di Warren Mosler, investment manger e creatore del mortgage swap e dell’attuale contratto Eurofuture swap, e Philip Pilkington, giornalista e scrittore di Dublino, Irlanda.

(la Redazione)


Recentemente, l’economista greco Yanis Varoufakis ha risposto al piano di uscita che abbiamo pubblicato su Naked Capitalismqualche giorno fa. Nonostante Varoufakis abbia sostenuto, in generale, il piano nel caso in cui l’uscita fosse necessaria, ne ha criticato alcuni punti. Prima di trattare le questioni sollevate – alcune delle quali molto importanti – ribadiamo, nel modo più chiaro possibile, che nessuno di noi sta sostenendo l’uscita dall’Eurozona per i Paesi membri.

Concordiamo con Varoufakis che quest’ipotesi potrebbe essere probabilmente un’opzione più gravosa rispetto a quella di rimanere semplicemente nell’Unione Monetaria, persino con i programmi di austerità in atto.

Abbiamo anche pubblicato diversi articoli argomentando che l’Eurozona, probabilmente, supererà questa crisi e che la BCE, in qualche modo, interverrà a sostenere il debito dei governi della periferia [dell’Eurozona] nei mesi a venire. Abbiamo semplicemente pubblicato la nostra bozza di piano d’uscita perché entrambi crediamo che è sempre bene avere un piano B pronto a disposizione per qualunque evenienza dovesse presentarsi. Pensiamo inoltre che avere un piano attuabile in mano rafforzi il potere contrattuale dei Governi della periferia [dell’Eurozona] nei confronti dei (Paesi) loro vicini. Soprattutto in questo momento. Prima però, rispondiamo alle osservazioni che Varoufakis ha sollevato (i punti numerati in corsivo sono le osservazioni di Varoufakis, a cui seguono le nostre risposte):

1. Tutti i contratti del governo con il settore privato (estero e nazionale) saranno rinegoziati nella nuova valuta dopo un iniziale deprezzamento di quest’ultima. In altre parole, i produttori nazionali dovranno affrontare istantaneamente una grande perdita. Molti di loro dichiareranno bancarotta, con un’altra grande perdita istantanea di posti di lavoro.

Prima di tutto, non è detto che ci debba essere un iniziale deprezzamento della nuova valuta laddove il governo, intraprendendo la strategia d’uscita, ottenga il corretto tasso di cambio. Poiché la nuova valuta verrebbe richiesta per pagare le tasse, ci aspettiamo ci sia una domanda piuttosto costante di essa, specialmente nel momento della sua introduzione iniziale. Consideriamo per esempio un’impresa nazionale – diciamo un produttore di cemento che vende i suoi prodotti al governo. Essa sarebbe pagata nella nuova valuta e ammesso che il valore della valuta rimanga pressoché costante, la nuova valuta potrebbe essere usata per pagare i suoi lavoratori. Inoltre, come accade oggi, essa stabilirà il prezzo dei suoi prodotti in base ai costi (che sostiene) così non ci sarebbe minaccia di bancarotta.

Il punto cruciale, forse, è che non ci aspettiamo una mancanza di domanda di nuova valuta. Poiché essa è rilasciata nel sistema lentamente, e poiché è necessaria per estinguere l’onere delle tasse ed, alla fine, poiché ci sarà un immediato bisogno di liquidità in circolazione, essa dovrebbe essere largamente ricercata dagli attori economici.

Se, d’altro canto, un’impresa avesse ingenti prestiti in euro, potrebbe essere necessario convertire un po’ dei suoi profitti dalla nuova valuta in euro per poter assolvere alle sue obbligazioni. Di nuovo, questo ha a che fare tanto con l’ammontare dei profitti accumulati, quanto con il tasso di cambio (esistente) tra le due valute. Se il reddito reale diminuisse, potrebbe subire una perdita. Ma così è il mondo degli affari.

La domanda che rimane è quella relativa a dove questi business acquistino i loro fattori produttivi. Se questi ultimi provengono dall’economia domestica, allora essi saranno nelle condizioni di pagarli nella nuova valuta. Se, invece, arrivassero dal mercato estero, costerebbero di più, se davvero la nuova valuta si deprezzasse al momento della sua introduzione e allora i costi sarebbero addirittura trasferiti ai consumatori.

2. Le banche rimarranno a corto di liquidità e non potranno essere mantenute attive dalla BCE. Questo significa che l’unica via attraverso la quale l’Irlanda, la Grecia o qualsiasi altro paese che adotti il piano, potranno mantenere le loro banche attive è la (loro) ricapitalizzazione nella nuova valuta domestica da parte della Banca Centrale. Ma Questo significa che i conti di deposito della banca, di fatto, saranno convertiti nella nuova valuta e si annulleranno gli effetti benefici derivanti dalla non obbligatorietà delle conversioni dei depositi bancari nella nuova valuta.

Questa ci sembra l’osservazione più importante avanzata da Varoufakis. Le banche europee hanno proprio problemi di liquidità denominata sia in euro che in dollari e questi problemi peggioreranno solo in caso di un default e di un’un’uscita. Torniamo, quindi, alla prospettiva di corse agli sportelli bancari ed altre difficoltà finanziarie.

In questo caso il governo in questione sarebbe, certamente, il solo ad essere capace di mettere a disposizione liquidità nella nuova valuta. I problemi derivanti da questo sarebbero, sostanzialmente tanto più sostanziali quanto più il tasso cambio tra la nuova valuta e l’euro diverge. Allo stesso tempo, i correntisti staranno convertendo l’euro nella nuova valuta in modo da poter affrontare i pagamenti in corso (personale, tasse, ecc.). Ancora una volta, sottolineiamo il fatto che crediamo che la domanda per la nuova valuta sarebbe abbastanza forte e la svalutazione limitata.

Ad ogni modo, se il patrimonio netto (equity capital) di una banca crollasse, per qualunque ragione al di sotto dei requisiti minimi richiesti, il governo dovrà subentrare e riorganizzare l’istituto. Le opzioni includeranno allora: vendere la banca come un business in essere oppure vendere i suoi asset ad altri istituti. Entrambe le soluzioni potrebbero portare a ingenti perdite per gli azionisti e, se tal perdite fossero abbastanza consistenti, coinvolgerebbero anche i correntisti. Non è raro, per quest’ultimi, subire perdite dell’ordine del 25% durante la liquidazione. Siamo pienamente favorevoli alla realizzazione di un’assicurazione sui depositi per proteggere i depositi denominati nella nuova valuta, mentre quelli in euro saranno ancora a rischio ed, in questo senso, le considerazioni di Varoufakis trovano merito.

3. Gli autori affermano che gli effetti negativi di cui sopra saranno ridotti dalla ripristinata indipendenza monetaria del governo, che lo metterà in condizione di interrompere immediatamente i programmi di austerità ed adottare politiche fiscali anticicliche, come fece l’Argentina dopo il suo default e la fine del cambio fisso dollaro-pesos. Questo può essere vero, ma bisogna prendere con scetticismo il paragone con l’Argentina. Il recupero dell’Argentina – e le relative politiche fiscali – fu dovuto solo marginalmente alla sua rinnovata indipendenza e, per lo più, legato ad una crescita fortuita della domanda di semi di soia da parte della Cina.

L’entità dell’incremento del prezzo della soia che permise il recupero argentino è materia di grande dibattito. Certamente, questo fenomeno consentì all’Argentina l’accesso alle riserve estere che poterono essere utilizzate per estinguere i prestiti stranieri, ma in quale entità questa fu la causa della ripresa, è una zona d’ombra. Noi riteniamo che Le politiche fiscali iniziate dal governo di Kirchner, che rimossero il sostanziale fiscal drag [1], giocarono un ruolo significativo nella ripresa.

Varoufakis, dicendo che “Il recupero dell’Argentina – e le relative politiche fiscali – fu dovuto, solo marginalmente alla sua rinnovata indipendenza e, per lo più, fu legato ad una crescita fortuita della domanda di semi di soia da parte della Cina”, sembra intendere che una politica fiscale espansiva fu, in qualche modo, “permessa” dall’incremento della domanda di semi di soia e dall’influsso delle riserve monetarie estere: non è questo il caso. Quando l’Argentina interruppe il cambio fisso (della sua valuta) con il dollaro, potè espandere la spesa pubblica nella misura che ritenne opportuna – cioè, in pratica: riducendo il fiscal drag tanto quanto fosse necessario al Paese per tollerare le pressioni inflazionistiche create.

Dopo lo sganciamento del pesos dal dollaro, la posizione fiscale dell’Argentina poté essere in deficit senza rischi di default o di innalzamento dei tassi di interesse alle stelle, entrambi i vincoli chiave alla spesa del governo durante l’era di cambio fisso con il dollaro. In questa maniera, l’esempio argentino è perfettamente calzante come paragone ai paesi dell’Eurozona che intraprendono un’uscita. Se fosse intrapresa l’uscita e fosse adottato un tasso di cambio fluttuante, la politica fiscale potrebbe essere orientata al deficit, fino a che limiti politici, la svalutazione o l’inflazione non permettessero di continuare a spendere in deficit.

4. Mentre è vero che la valuta più debole farebbe aumentare le esportazioni, essa avrà anche un effetto devastante: la creazione di una nazione a due livelli. Un livello avrebbe accesso agli euro accumulati, l’altro no. Il primo acquisirebbe un immenso potere socio-economico sul secondo e si forgerebbe una nuova forma di inuguaglianza che opererebbe come un freno allo sviluppo per molto tempo – proprio come la diseguaglianza che crebbe dopo gli anni 70, creando enormi danni allo sviluppo reale dei nostri paesi (a differenza dei numeri legati alla crescita del GDP) nella seconda fase del dopo-guerra.

Ancora una volta, la valuta non dovrebbe deprezzarsi significativamente, ma anche se lo facesse, quando l’economia è riportata allo stato di piena occupazione e produzione attraverso la riduzione del fiscal drag ed l’aumento delle esportazioni, il governo sarebbe allora libero di affrontare gli aspetti di distribuzione [del reddito] come ritenuto opportuno. Il punto chiave qui sarebbe quello di evidenziare chiaramente queste questioni prima di realizzare l’uscita.

5. In ultimo, ma non per importanza, anche se un paese uscisse dall’Eurozona in questa maniera, quest’ultima si sgretolerebbe in 24 ore. Il sistema europeo delle banche centrali crollerebbe subito, lo spread italiano raggiungerebbe i livelli di quello greco, la Francia istantaneamente diventerebbe un paese con rating AA o AB e, prima di fischiettare la 9° sinfonia, la Germania avrebbe già dichiarato la ricostituzione del marco tedesco. Una recessione di massa colpirebbe gli stati, i quali costituiranno la nuova zona del marco tedesco (Austria, Olanda, probabilmente la Finlandia, Polonia e Slovacchia), mentre il resto della eurozona precedente opererebbe in una condizione di significativa stagflazione. Le nuove guerre valutarie intra-europee sopprimeranno, insieme alla galoppante recessione/stagflazione, gli scambi internazionali ed europei e, quindi, gli Stati Uniti crollerebbe in una nuova grande recessione. Gli anni 30 postmoderni di cui sto parlando sarebbero una tragica realtà.

Dovremmo ripetere ancora una volta che – in realtà – non stiamo invitando ad un’uscita. Semplicemente, crediamo che i governi dovrebbero avere un piano d’emergenza e, più importante, che questo piano li tenga alla larga dal desiderio piuttosto concreto di agganciare la loro nuova valuta all’euro o a qualsiasi altra valuta estera, in caso di default. Come abbiamo scritto nel piano originale, se questo dovesse accadere ci aspettiamo un altro collasso finanziario “stile Argentina/Russia” entro qualche anno dal nuovo ancoraggio valutario.

Dovremmo inoltre porre l’attenzione sul fatto che avere un piano di uscita attuabile – insieme ai suoi possibili risultati, di cui si è discusso apertamente – dà ai paesi della periferia [dell’Eurozona] un maggiore potere contrattuale nei confronti delle condizioni d’austerità tanto amate dai paesi vicini. In questo momento ci si dovrebbe focalizzare sulla strategia nazionale che possa ridare potere agli Stati sovrani nei confronti dell’Eurozona. (sappiamo che Varoufakis simpatizza verso questo discorso poiché recentemente ha dimostrato interesse per il piano di lavoro finanziato da titoli tax-backed [2] che uno degli autori [Pilkington] sta, attualmente, cercando di pubblicizzare in Irlanda)

Pensiamo inoltre che sia improbabile che in realtà si verifichi un’uscita. Entrambi pensiamo che la BCE quasi indubbiamente interverrà a sostenere il peso del debito degli indisciplinati Paesi della periferia [dell’Eurozona]. Comunque, questo probabilmente significherà che i Paesi della periferia [dell’Eurozona] saranno “tenuti in vita artificialmente” mentre l’austerità continuerà ad essere loro imposta. Ancora una volta, è imperativo che tali Paesi abbiano quanti più elementi negoziali possibili nelle loro trattative con i loro colleghi europei.

Per finire, dovremmo notare che, se una nazione dovesse uscire dall’Eurozona nella maniera che abbiamo sottolineato, un collasso deflazionistico globale potrebbe attualmente lavorare a loro vantaggio. Perché? Perché con la nuova valuta, potrebbero adottare un piano di lavoro garantito come quello dell’Argentina che manterrebbe la piena occupazione a livello nazionale mentre il commercio – in termini reali – volgerebbe a loro vantaggio nel momento in cui i prezzi globali diminuiscono. Oppure, per metterla in un altro modo: i paesi della periferia [dell’Eurozona], come l’Irlanda, non potrebbero più fare affidamento su una crescita orientata alle esportazioni in un mondo tormentato da una enorme contrazione deflazionistica. Piuttosto, essi potrebbero ricorrere a deficit fiscali per mantenere la piena occupazione e standard di vita elevati riservando poca preoccupazione per la potenziale svalutazione della nuova valuta causata in tal modo, perché I prezzi globali diminuirebbero allo stesso tempo.

 

Note del Traduttore

1.^ Fiscal drag: drenaggio fiscale, fenomeno in base al quale l’inflazione produce un inasprimento del carico tributario, anche se il reddito reale resta invariato. Infatti, in un sistema di imposizione progressiva, un aumento del reddito monetario fa passare il contribuente a scaglioni di reddito gravati da un’aliquota più alta, anche se l’aumento del reddito monetario si limita a compensare l’erosione del potere d’acquisto della moneta, lasciando invariato il reddito reale. Il risultato è che il contribuente finisce con il pagare imposte più elevate su un reddito reale immutato; al netto delle imposte, quindi, il suo reddito diminuisce, fonte: Treccani.it

2.^ Titoli tax-backed: titoli di Stato che contengono una clausola che stabilisce che qualora il Paese si venisse a trovare in una condizione di default – e solo in quel caso – i suddetti titoli sarebbero accettati come mezzo di pagamento nel Paese in questione, fonte: Levyinstitute.org

 

Originale pubblicato il 1° dicembre 2011

Traduzione a cura di Stefano Bernardi, Supervisione di Maria Consiglia Di Fonzo


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