La Teoria

MMP Blog #25: La solvibilità della valuta e il caso particolare del Dollaro USA

MMP Blog #25: La solvibilità della valuta e il caso particolare del Dollaro USA

Nei blog recenti stiamo esaminando l’emissione di Titoli da parte di uno Stato sovrano. Abbiamo sostenuto che non si tratta in realtà di una operazione di “indebitamento”, anzi, l’emissione di Titoli offre un’alternativa (più) remunerativa dei depositi di riserve presso la Banca Centrale. Abbiamo anche sostenuto che fa poca differenza, nella pratica, il fatto che i Titoli di Stato siano detenuti da residenti nazionali o da residenti all’estero.

Tuttavia, è vero che in un regime di valuta [a tasso di cambio] fluttuante, è concepibile che i residenti all’estero in possesso di riserve o Titoli di Stato potrebbero decidere di “sbarazzarsene”, influenzando il tasso di cambio. Per lo stesso motivo, Paesi che desiderano realizzare esportazioni nette nei confronti, diciamo, degli Stati Uniti, sono interessati ad accumulare crediti in Dollari — spesso perché la loro domanda interna è troppo debole per assorbire la produzione potenziale, e spesso perché vogliono vincolare le loro valute al Dollaro. Per questo motivo, è improbabile che se ne “sbarazzino”.

Questo porta quindi all’obiezione secondo cui gli Stati Uniti costituiscono senza dubbio un caso particolare. Si, essi possono realizzare deficit di bilancio che alimentano deficit delle partite correnti senza preoccuparsi dell’insolvenza nazionale, pubblica o privata, proprio perché il resto del mondo desidera Dollari. Ma, senza dubbio, ciò non può essere vero per tutti gli altri Paesi. Oggi il Dollaro USA è la valuta di riserva internazionale — cosa che rende gli USA speciali. Vediamo di esaminare questa questione.

Non è forse vero che gli USA sono particolari? Si e no. Le identità contabili sono identità; sono vere per qualunque Paese. Se un Paese realizza un deficit delle partite correnti, per identità contabile ci deve essere una domanda per i suoi asset (reali o finanziari) da parte di qualcuno che detiene valuta estera (un residente all’estero potrebbe domandare la valuta del Paese sia per “investimento diretto”, incluso l’acquisto di proprietà immobiliari o impianti e attrezzature, sia per ottenere asset finanziari denominati in quella valuta). Se tale domanda di asset si riduce, allora anche il deficit delle partite correnti si deve ridurre.

È pressoché indubbio che gli asset denominati in Dollari USA siano molto appetibili a livello mondiale; in misura minore, anche gli asset finanziari denominati in Sterline inglesi, in Yen giapponesi, in Euro europei e in Dollari canadesi ed australiani sono molto desiderati. Ciò rende più semplice, per questi Paesi, realizzare deficit delle partite correnti attraverso l’emissione di passività denominate nella valuta nazionale. Pertanto sono “particolari”.

Molti Paesi in via di sviluppo non troveranno una domanda estera per le loro passività in valuta nazionale. Infatti, alcuni Paesi potrebbero essere così vincolati da dovere emettere passività denominate in una di queste valute più desiderate, per poter importare. Ciò può comportare molti problemi e vincoli — per esempio, una volta che un simile Paese ha emesso debito denominato in una valuta estera, esso deve guadagnare o prendere in prestito valuta estera per onorare quel debito. Questi problemi sono importanti, e di non facile risoluzione.

Se non c’è una domanda estera per gli ITD (Titoli o valuta dello Stato, così come asset finanziari privati) emessi nella valuta di un Paese in via di sviluppo, allora il suo commercio estero diventa qualcosa di simile al baratto: può ottenere prodotti esteri solo nella misura in cui può vendere qualcosa all’estero. Ciò potrebbe includere asset reali nazionali (capitale reale o immobili) o, più probabilmente, beni e servizi (materie prime, ad esempio). Potrebbe anche realizzare un saldo delle partite correnti in pareggio (in tal caso le rendite delle sue esportazioni sono disponibili per finanziare le sue importazioni), o il suo deficit delle partite correnti potrebbe essere compensato da investimenti esteri diretti.

In alternativa, per finanziare un deficit delle partite correnti, esso può emettere debito denominato in valuta estera. Con questa opzione il problema è che, per poter onorare quel debito, il Paese deve generare rendite in quella valuta estera. Ciò è possibile se le importazioni attuali consentono al Paese di aumentare la sua capacità produttiva fino al punto di poter esportare di più in futuro — onorando il debito grazie alla quantità di valuta estera ottenuta con le esportazioni nette. Tuttavia, se un simile Paese realizza un deficit delle partite correnti continuativo senza aumentare la propria capacità di esportare, quasi certamente incontrerà problemi di solvibilità.

Gli Stati Uniti realizzano di certo un deficit commerciale persistente. Questo è compensato in parte attraverso un flusso positivo di profitti netti ed interessi (gli investimenti esteri degli USA rendono più degli investimenti esteri negli USA). Ma le due motivazioni principali per cui gli USA possono sostenere deficit delle partite correnti persistenti sono: a) virtualmente, tutti i loro debiti detenuti all’estero sono denominati in Dollari; b) la domanda esterna di asset denominati in Dollari è elevata — per una molteplicità di ragioni.

La prima di queste implica che il pagamento del debito viene effettuato in Dollari — più semplici da ottenere per i debitori americani: famiglie, imprese e Stati. La seconda implica che i residenti all’estero sono disposti ad esportare in USA per ottenere asset denominati in Dollari, il che significa che un deficit commerciale è sostenibile fintanto che il resto del mondo desidera asset in Dollari.

Che dire di uno Stato che si “indebita” in valuta estera? E dei Paesi che emettono asset denominati in valuta estera? Tornando ad un Paese che emette debito denominato in una valuta estera, cosa succede se i debitori non possono ottenere la valuta estera di cui hanno bisogno per onorare il debito?

Finora abbiamo trascurato le domande riguardo a chi tipicamente emette debito denominato in valuta estera. Se è un’impresa o una famiglia, allora il fallimento nell’ottenere la valuta estera necessaria ad onorare il debito può portare al default e alla bancarotta. Tale evenienza verrebbe gestita nei tribunali (tipicamente, quando il debito viene emesso, è soggetto alla giurisdizione di uno specifico tribunale) e di per sé non pone alcun problema insormontabile. Se il debito è troppo consistente ne risulta la bancarotta, e il debito dev’essere cancellato.

A volte, tuttavia, gli Stati intervengono a protezione dei debitori nazionali, rilevandone i debiti (l’Irlanda è un buon esempio). In alternativa, a volte gli Stati emettono direttamente debito in valuta estera. In entrambi i casi, il default da parte di uno Stato su un debito denominato in valuta estera è solitamente più difficile [da gestire] — sia perché la bancarotta di uno Stato sovrano è una questione problematica a livello legale, sia perché il default [di uno Stato] sovrano è una questione politicamente rilevante.

Nella pratica, il default sovrano (specialmente sul debito in valuta estera) non è cosa rara, scelto spesso come alternativa meno costosa rispetto al fatto di continuare ad onorare il debito. Gli Stati sovrani, solitamente, scelgono quando dichiarare default — quasi sempre, essi avrebbero potuto continuare ad onorare il debito (ad esempio imponendo l’austerità per aumentare le esportazioni, o rivolgendosi a prestatori internazionali). A quanto pare, essi decidono che i benefici del default superano i suoi costi. Tuttavia, questo può avere ripercussioni politiche. Ciononostante, la storia è ricca di default di Stato sul debito denominato in valuta estera.

A volte gli Stati emettono debito in valuta estera nella convinzione che ciò ridurrà i costi dell’indebitamento — poiché i tassi d’interesse, diciamo, in Dollari USA, sono inferiori rispetto a quelli in valuta nazionale. Tuttavia, il debito in valuta estera porta con sé un rischio di default — e se i mercati lo fanno gravare sui tassi d’interesse, potrebbe non esserci alcun vantaggio. Eppure, non è insolito che gli Stati tentino di giocare sui differenziali d’interesse, emettendo debito in una valuta estera che presenta un tasso d’interesse inferiore. Sfortunatamente, questo si può rivelare un miraggio — i mercati riconoscono il maggior rischio di default in valuta estera, eliminando qualunque vantaggio.

Inoltre, come discusso nei blog precedenti, per uno Stato sovrano il tasso d’interesse nazionale (almeno il tasso d’interesse di breve periodo nella Moneta di conto nazionale) è una variabile politica. Se lo Stato sta spendendo sul territorio nazionale, nella propria valuta, esso può scegliere di lasciare riserve nel sistema bancario oppure di offrire Titoli. In altri termini, non è costretto a pagare tassi d’interesse nazionali elevati se non desidera farlo, visto che può invece lasciare le banche in possesso di riserve con un tasso d’interesse ridotto (o nullo). Questa opzione è disponibile per qualunque Stato che emetta la propria valuta — fintanto che la sua spesa avviene all’interno dell’economia nazionale.

Come discusso in precedenza, lo Stato sarà limitato ad acquistare ciò che è in vendita nella sua valuta — e se è vincolato nella sua capacità di imporre e riscuotere tasse, allora sarà analogamente limitata la domanda nazionale della sua valuta. Non vogliamo suggerire, quindi, che la spesa pubblica non sia soggetta a vincoli — persino in un Paese sovrano che emette la sua valuta.

Ma, se un Governo nazionale emette ITD denominati in valuta estera, il tasso d’interesse che paga viene “determinato dal mercato”, nel senso che i mercati assumeranno il tasso d’interesse di base nella valuta estera [considerata] e vi aggiungeranno un margine che tenga conto del rischio di default sulle obbligazioni in valuta estera. È probabile che i costi dell’indebitamento in valuta estera si dimostreranno essere più elevati di quanto lo Stato pagherebbe nella sua valuta per far sì che i titolari nazionali (ed esteri) accettino i suoi ITD.

Solitamente ciò non viene compreso, perché il tasso d’interesse in valuta nazionale sul debito pubblico è una variabile politica — fissata solitamente dalla Banca Centrale — ma i policymaker sono convinti di dover aumentare i [già] crescenti tassi d’interesse nazionali quando il deficit di bilancio aumenta. Questo viene fatto per combattere le pressioni inflattive o la pressione al ribasso sui tassi di cambio che i policymaker sono convinti che seguiranno alla realizzazione di deficit di bilancio. In realtà — come discusso in precedenza — se un Paese cerca di vincolare il suo tasso di cambio, allora un deficit di bilancio potrebbe comportare una pressione sul tasso di cambio. Dunque, esiste qualche giustificazione al tentativo di contrastare il deficit di bilancio con una politica monetaria più restrittiva (tassi d’interesse nazionali più elevati).

Ma il punto è che lo Stato fissa il tasso d’interesse nazionale sui fondi overnight, [tasso] che — a sua volta — influenza fortemente il tasso d’interesse sui Titoli di Stato a breve termine. Pertanto, se lo Stato desidera tassi d’interesse più bassi sul suo debito, ha sempre la possibilità di usare la politica monetaria nazionale per raggiungere questo risultato. Sfortunatamente, però, questo non è compreso a livello generale — pertanto — gli Stati emettono debito denominato in valuta estera e si assumono il rischio di un default perché devono realmente approvvigionarsi di valuta estera per onorare il debito. Pertanto, è quasi sempre un errore, per uno Stato, emettere Titoli in valuta estera.

Conclusione sull’eccezionalità degli USA. Quindi si, il caso degli USA (ed in varia misura di altri Paesi sviluppati) è particolare, ma i Paesi “meno particolari” non sono senza speranza. Fintanto che la popolazione nazionale è obbligata a pagare tasse nella valuta dello Stato, esso sarà in grado di mettere in circolo la sua valuta attraverso la spesa. E, laddove la domanda estera di asset in valuta nazionale sia limitata, esiste ancora la possibilità dell’indebitamento privato in valuta estera con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo economico che aumenterà la capacità di esportare. Esiste anche la possibilità di un aiuto internazionale sotto forma di valuta estera. Molti Paesi in via di sviluppo ricevono anche valuta estera sotto forma di rimesse (lavoratori in Paesi stranieri che mandano valuta estera a casa). E, infine, l’investimento estero diretto costituisce una fonte aggiuntiva di valuta estera.

La prossima settimana ci occuperemo degli effetti della politica dello Stato in un’economia aperta: gli effetti sui deficit commerciali e sui tassi di cambio.

 

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Originale pubblicato il 20 novembre 2011

Traduzione a cura di Andrea Sorrentino, Supervisione di Maria Consiglia Di Fonzo

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