Il Commento

Lo scontro taxisti-Uberpop: come raccontare una battaglia senza spiegare la guerra

Ai media piace dare risalto alla contrapposizione tra due fronti della battaglia, un po’ meno capire le cause della battaglia, quasi per nulla spiegare che quella battaglia è solo una delle tante manifestazioni di una guerra.

È il caso della contrapposizione taxisti vs conducenti Uberpop. L’accusa rivolta ai conducenti del servizio Uber è di concorrenza sleale. Il servizio consisterebbe in teoria in un noleggio di auto con conducente (come tale obbligato a ritornare al proprio deposito conclusa la corsa) ma di fatto è quello di un taxi (che può invece rimane a girare in città) ma con prezzi nettamente inferiori a quello del taxi.

I conducenti Uberpop non hanno licenze ma una semplice registrazione nell’archivio Uberpop, usano la loro auto di proprietà e vengono abilitati dall’azienda a seguito di un colloquio (e un controllo della fedina penale). Niente da obiettare, è una concorrenza piuttosto sleale. Eppure intorno alla categoria dei taxisti non si è sviluppato alcun sentimento di solidarietà da parte dei cittadini. Il cittadino è prima di tutto consumatore e il servizio Uberpop costa meno del taxi, in più con un semplice clic sull’app ha il conducente sotto casa. D’altronde la categoria dei taxisti non era quella presa come simbolo della resistenza al cambiamento delle liberalizzazioni di epoca montiana (ora renziana) che avrebbero dovuto crescere PIL e occupazione? La propaganda fece il suo (dis)onesto lavoro, h24, festivi compresi e con alta produttività. Gli appelli nei giornali al grido “Fate presto!” erano continui e tutti indirizzati a richiedere con urgenza l’avvio delle liberalizzazioni indispensabili per liberare l’economia dai lacci e laccioli (poco dopo saremmo entrati in deflazione). Dopo toccò ai vigili di Roma, simbolo delle eccessive tutele a scapito del solito scudo umano del liberismo: il cittadino/consumatore. In quel caso era impellente una riforma del pubblico impiego mentre quella del mercato del lavoro era già iniziata dalle prede più facili: i lavoratori del settore privato. Anni prima era stato il turno dei dipendenti dei “carrozzoni” come Alitalia. Risultato di tutto questo? Minori servizi, minore occupazione, meno Stato, salari più bassi ma soprattutto un sentimento che accomuna tutti quelli che lavorano: nessuno sia senta più al sicuro. Se non ti senti più al sicuro sarai disposto ad accettare qualsiasi condizione di lavoro e di salario.

In TV un giornalista intervista un conducente Uberpop: ha 64 anni, la crisi gli ha fatto chiudere il bar, ha venduto il locale e paga a rate le tasse residue. Non ha la pensione. Gli è rimasta l’auto che, ben lucidata, è diventata ora il suo mezzo di produzione. Non ha altre alternative. In studio, invece, il conduttore intervista il taxista del fronte opposto, il quale frastornato dalle accuse di conservatorismo e di inefficienza mosse dalla manager Uberpop (quando l’uomo della lobby che ha studiato comunicazione incontra l’uomo che ha la ragione dalla sua ma non ha studiato comunicazione, l’uomo che ha ragione è un uomo morto) e inconsapevole che sia lui che il conducente Uberpop sono vittime della lucida e lungimirante strategia dell’austerità. Ma il taxista non sa questo, così come non sa che uno Stato con la sua moneta e un’adeguata spesa a deficit può, se vuole, far lavorare dignitosamente tutti senza inutili sofferenze e guerre. Il giornalista accanto a lui racconta la battaglia tra i due fronti ma non la guerra.


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