L'Editoriale

L’assordante silenzio sul Fiscal Compact

L'assordante silenzio sul Fiscal Compact

Juncker ha dichiarato: “Non vi è momento migliore per riparare il tetto di casa di quando il sole brilla”.

Al di là delle opinioni di un alcolizzato su quanto brilli il sole, il fatto è che nella zona euro si stanno programmando riforme di cui qui in Italia bisognerebbe discutere molto di più, e il dibattito non dovrebbe coinvolgere soltanto gli specialisti. A fine 2017 va in scadenza il patto fiscale, noto come Fiscal Compact, siglato tra gli Stati europei con l’obiettivo duplice e intrinsecamente contraddittorio di risanare le finanze pubbliche (attraverso la creazione di disoccupazione, i tagli allo Stato sociale e la deflazione salariale) e tranquillizzare i mercati finanziari in panico (un disoccupato in più è un contributo all’abbassamento dello spread). L’articolo 16 del trattato stabilisce che, entro cinque anni dalla sua entrata in vigore, si debba decidere se convertirlo in un vero e proprio trattato dell’Unione europea. La scadenza dovrebbe essere un’occasione per rimettere in discussione l’intero approccio alla gestione della crisi economica e al coordinamento fra politiche economiche dei Paesi membri. Il Parlamento italiano dovrebbe discutere da mesi su se e come rilanciare il Fiscal Compact. Il dibattito dovrebbe occupare le prime pagine dei giornali, e le varie posizioni dei partiti rappresentati in Parlamento, espresse da un voto entro fine anno, dovrebbero fare chiarezza di fronte agli elettori su quanto davvero ogni singolo partito sia intenzionato a contrastare un accordo internazionale altamente impopolare e ad altissimo impatto sulle nostre vite. I voti degli eletti in Parlamento dovrebbero servire a orientare i voti degli elettori alle prossime politiche.

Invece no. Pare che su questa questione il nostro Parlamento non voterà, e nemmeno il Governo prenderà alcuna decisione. E non si arriverà a un voto, e nemmeno si aprirà un dibattito pubblico, perché tutti sanno che questo sarebbe troppo pericoloso per gli equilibri esistenti. Infatti, se l’inserimento del Fiscal Compact in un vero e proprio trattato regolamentato dall’Unione europea non ottenesse un voto maggioritario in Parlamento, questo destabilizzerebbe l’Europa. Se, al contrario, tale rinnovo ottenesse la maggioranza, questo potrebbe destabilizzare alle prossime elezioni politiche i partiti che in Parlamento si esprimerebbero a favore. A ben guardare, l’articolo 16 del trattato indica una scadenza di cinque anni per procedere alla trasposizione del Fiscal Compact nell’ordinamento giuridico dell’UE, ma non implica che alla scadenza del quinto anni il Fiscal Compact cessi di essere vincolante. E allora perché anche solo parlane?

Invece la questione verrà risolta, molto più serenamente, all’interno degli organi dell’Unione europea, che non sono eletti dal popolo, in linea con il pensiero di Schäuble e di tanti altri politici e commentatori, secondo cui la democrazia è un affare troppo delicato per lasciarlo in mano agli elettori. La questione dell’inserimento dell’accordo all’interno del diritto europeo verrà comodamente rinviata per poter avanzare un progetto più articolato sull’assetto istituzionale dell’Unione europea, in una direttiva da approvare entro la metà del 2019. Fuor di metafora, a che cosa si riferisce Juncker quando parla di “riparare il tetto”?

La proposta, in breve, prevede (1) l’istituzione di un Ministero delle Finanze sovranazionale, con un super-ministro del Tesoro che aumenti il controllo e il potere disciplinare sui bilanci dei Governi nazionali; (2) l’inserimento appunto del Fiscal Compact nell’ordinamento europeo, magari appena un po’ rivisto; (3) l’istituzione di un Fondo Monetario Europeo, che funzionerebbe come il Fondo Monetario Internazionale, cioè elargirebbe aiuti ai Paesi in crisi in cambio di austerità e riforme strutturali (e, come il FMI, sarebbe governato con un meccanismo in cui i Paesi più ricchi peserebbero di più e i Paesi considerati il motore dell’Europa, Francia e Germania, avrebbero potere di veto).

Insomma, si tratta di un pacchetto ben più ruvido del semplice Fiscal Compact come l’abbiamo conosciuto fino a oggi. Chi elegge il super-ministro del Tesoro? Con quale autorità questo ministro “federale” avrà potere sul budget di singoli Governi, responsabili della quasi totalità della spesa pubblica? Che spazio sarà dato a un Paese come l’Italia in questo equilibrio di poteri in cui tutti i membri sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri? Eppure quaggiù, nella periferia d’Europa, anziché discutere di questo iceberg contro cui andremo a scontrarci, si preferisce evidentemente fare pollaio.

L’Unione europea, con questa mossa che sostanzialmente rinvia la scadenza del Fiscal Compact pro tempore, ha tolto le castagne dal fuoco ai nostri candidati italiani, che, a questo punto, meno che mai dovranno giustificare di fronte agli elettori alcuna scelta. Anzi, potranno anche assecondare il malcontento della base elettorale esercitando lo ius murmurandi, un diritto (al mugugno) che anche i dittatori concedono sempre alle persone senza responsabilità e senza potere. Viviamo in tempi di democrazia a bassa, bassissima, quasi invisibile intensità, com’è attestato anche dal silenzio che è l’unico a regnare ancora sovrano nel nostro Paese.


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