Approfondimento

Il grande bluff della ripresa, dati alla mano

Il grande bluff della ripresa, dati alla mano

È ormai prassi consolidata, specialmente in occasione di elezioni politiche: chi governa tenta di convincere gli elettori che si ha il polso della situazione economica e che si è fatto il possibile per migliorare l’economia del Paese. Spesso vengono presentati anche dati per testimoniare che la disoccupazione cala e aumentano le assunzioni, calano i fallimenti delle imprese e si stima un aumento del PIL. La crisi economica sarebbe solo un brutto ricordo del passato.

Dobbiamo credere ai servizi, più o meno surreali, sulla fantomatica ripresa economica?

Un dato su tutti: il tasso di disoccupazione totale (dati ISTAT), sceso al 10,8% nel mese di dicembre (riducendosi dello 0,3% rispetto all’11% dei mesi precedenti), a gennaio è ritornato al tasso strutturale dell’11,1%.

Si tratterebbe di una ripresa alquanto insolita, in cui il tasso di disoccupazione resta pressoché invariato rispetto al periodo della crisi.

Sia il tasso di disoccupazione totale sia quello giovanile sono ben lontani dal tasso del 2007-2008 pre-crisi finanziaria, quando erano rispettivamente al 6% e al 20%.

Sempre secondo l’Istat, nel 2017 sono aumentati sopratutto i dipendenti a tempo determinato (+57 mila, circa il 2% in più nel 2017, e il 2,2% a gennaio 2018) e sono diminuiti quelli a tempo indeterminato (-25 mila, -0,2% nel 2017), e quelli autonomi (-20 mila, -0,4% nel 2017, -1,9% nel 2018). Fa sempre bene ricordare che i calcoli Istat considerano “occupato” chi abbia lavorato almeno un’ora nella settimana di rilevazione statistica.

Ma il dato, non rilevato ma importante per capire il quadro di riferimento, è quello relativo agli Italiani che emigrano all’estero. Secondo il Dossier Statistico Immigrazione 2017, elaborato dal Centro Studi e Ricerche Idos, oggi gli emigrati italiani sono tanti quanti quelli dell’immediato dopoguerra: oltre 250˙000 l’anno (114˙000 solo nel 2016).

Altro dato su cui riflettere è relativo alle imprese che chiudono i battenti.

Secondo il Cerved, nel complesso, tra gennaio e marzo hanno lasciato il mercato 19 mila imprese, il 5,1% in meno rispetto allo stesso periodo del 2016 (ma ne sono nate quasi 357˙000 in meno, cioè -1,8% rispetto al 2016) e sono diminuiti i fallimenti. Ma è importante sapere che però i tribunali hanno avviato 1˙069 procedure concorsuali diverse da fallimento e concordato preventivo, un dato in forte aumento rispetto al 2016 (+16,7%). Aumentano i casi di liquidazione coatta amministrativa (+45,7%); si tratta di una procedura simile a quella fallimentare, diretta ad estinguere l’impresa dopo aver soddisfatto i creditori. A differenza della liquidazione volontaria, però, viene tutelato l’interesse pubblico ed è una procedura disposta dall’autorità amministrativa (anziché dal tribunale, come avviene per la procedura fallimentare).

Secondo l’Osservatorio sui fallimenti del mese di febbraio, i dati di dettaglio indicano che nel 2017 il numero di liquidazioni coatte amministrative di cooperative è impennato, con particolare riferimento alle imprese che operano nei campi della logistica (+64,2%), dei servizi non finanziari (63,1%), dei servizi di assistenza e delle attività di pulizia. Anche gli altri settori dell’economia hanno fatto registrare un aumento di queste procedure, ma a tassi più contenuti (+20,4% l’industria e +18,9% le costruzioni).

Complessivamente, da un punto di vista geografico l’aumento è stato più pronunciato al Centro-Sud.

È importante inoltre sottolineare come il Dlgs 169/2007 (entrato in vigore nel 2008) abbia modificato i requisiti di ammissione alla procedura fallimentare. Nello specifico, secondo l’art.1 della legge fallimentare, l’imprenditore deve avere un ammontare di debiti non superiore a 500˙000€ (mentre prima ne erano sufficienti 200˙000). Quindi sono esclusi dal calcolo dei fallimenti le piccole/medie imprese con debiti inferiori a mezzo milione di euro.

Nel 2018 i fallimenti, da un punto di vista formale, si ridurranno ulteriormente grazie alla nuova Riforma fallimentare pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 30/10/17, con cui si abbandona l’espressione fallimento per dare spazio alla liquidazione giudiziale e sarà possibile avviare un concordato che dovrebbe portare alla liberazione dai debiti entro tre anni dall’apertura della procedura. L’imprenditore avrà inoltre la possibilità di avviare una nuova attività. Verrà poi istituito presso le Camere di Commercio un “servizio di composizione assistita della crisi” con il compito di dare l’allerta in una fase preventiva, cercando dunque di prevenire la crisi.

Ma non è tutto: infatti, secondo uno studio del CGIA di Mestre, negli ultimi 8 anni hanno chiuso i battenti circa 160˙000 piccole imprese, tra botteghe artigiane e piccoli negozi, in favore della grande distribuzione. Si stimano si siano persi circa 400˙000 posti di lavoro.

Tra giugno 2016 e giugno 2017 le imprese attive nell’artigianato e nel commercio al dettaglio sono scese di oltre 25˙000 unità (circa dell’1,2%).

Il calo dei consumi, le tasse, la burocrazia, la mancanza di credito e l’impennata del costo degli affitti – spiega il coordinatore dell’Ufficio studi CGIA di Mestre, Paolo Zabeo – sono le principali cause che hanno costretto molti piccoli imprenditori ad abbassare definitivamente la saracinesca della propria bottega. Se, inoltre, teniamo conto che negli ultimi 15 anni le politiche commerciali della grande distribuzione si sono fatte sempre più mirate ed aggressive, per molti artigiani e piccoli negozianti non c’è stata via di scampo. L’unica soluzione è stata quella di gettare definitivamente la spugna

Il Pil nel 2017 è salito dell’1,5% (al di sotto della media europea, al 2,2%). L’ incremento è dovuto essenzialmente all’aumento delle esportazioni, resa possibile grazie alla compressione dei salari che ha reso i prodotti italiani più competitivi.

I salari nominali sono aumentati ma, al netto del tasso d’inflazione, quelli reali no: in termini reali i salari sono stati ridotti. Scrive IlSole24Ore:

“Nel 2017 infatti, per l’intera economia, i salari nominali sono cresciuti in media dello 0,2% ‘cui corrisponde una contrazione in termini reali di circa l’1%‘, scrivono gli studiosi. La domanda di lavoro delle imprese è stata vivace, e per la prima volta dopo tre anni di stagnazione la produttività del lavoro ha mostrato un modesto incremento. Ma questo incremento ha avuto un costo. ‘Dato il recupero della produttività e tenendo conto della stagnazione del costo del lavoro, la crescita del costo unitario del lavoro è risultata di segno negativo (-0,3 per cento per l’intera economia, anche questo un minimo storico). La (scarsa) inflazione dell’anno è quindi andata interamente a beneficio dei margini delle imprese’. Mentre i lavoratori hanno avuto meno reddito (e risparmio).

Che tipo di ripresa è una ripresa che lascia la disoccupazione stabile, peggiora la qualità del lavoro e tiene fermi i salari? Altri dati.

Gli italiani rinunciano alle cure

La progressiva privatizzazione della sanità pubblica ha di fatto eroso il diritto delle persone a curarsi. Secondo il VII Rapporto RBM – Censis sulla Sanità Pubblica, Privata e Intermediata in Italia, più di 12 milioni di Italiani rinunciano alle cure mediche per motivi economici (oltre 1 milione in più rispetto all’anno precedente).

Con il decreto “Rideterminazione del livello del fabbisogno sanitario nazionale” del giugno 2017, il Governo ha siglato il taglio ai finanziamenti al SSN per 423 milioni di euro nel 2017 e di 604 milioni per il 2018. Tagli che si traducono in blocchi di assunzioni per sopperire al turnover del personale ospedaliero, meno posti letto, maggiori tempi di attesa per le prestazioni sanitarie e maggiori costi che devono sostenere i cittadini.

Secondo la Relazione sulla gestione Finanziaria delle Regioni, esercizio 2015 della Corte dei Conti, presentata a luglio 2017, nel periodo 2015-2018 l’attuazione degli obiettivi di finanza pubblica ha determinato una riduzione cumulativa del finanziamento del SSN di 10,51 miliardi di euro rispetto ai livelli programmati.

Record storico della povertà

L’Italia è il Paese europeo in cui vivono più poveri, in aumento di anno in anno.

Nel 2016 la quota delle persone residenti in Italia a rischio di povertà o esclusione sociale è stata stimata nel 30%, in peggioramento rispetto al dato del 28,7% dell’anno precedente.

Aumenta la quota di quanti vivono in famiglie gravemente deprivate (12,1% da 11,5%), così come quella delle persone che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa (12,8% da 11,7%).

In aumento anche la povertà minorile, come denuncia Save the Children: 1 milione e 292 mila il numero di bambini che vivono in povertà assoluta, 1 su 8, il 14% in più rispetto allo scorso anno; i bambini in povertà relativa sono passati dal 20% nel 2015 al 22% nel 2016.

La realtà che abbiamo di fronte è questa, e smentisce la narrazione della ripresa. Non poteva essere un quadro diverso, dopo anni di politiche di austerità. I dati inchiodano chi ha sostenuto queste scelte politiche. Speriamo che questi dati siano da monito per i nuovi parlamentari, in modo da evitare che cadano col sedere per terra per essersi improvvisati in piroette acrobatiche malriuscite.


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